Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Premio meritatissimo il Leone d’Oro per il Miglior Film alla 71 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia che onora non solo un film ma un lavoro coeso che nella parentesi temporale di 14 anni, seppur con una manciata di titoli, ha reso il regista un autore di culto in tutto il mondo. Dopo una serie di cortometraggi, Andersson arriva al suo primo lungometraggio nel 1970 con Una storia d’amore ( En kärlekshistoria) che gli vale la candidatura all’Orso d’oro al Festival di Berlino. Segue Giliap del 1975. Due film drammatici che mostrano i prodromi di quello stile che caratterizzerà la seconda parte della sua carriera che riparte dopo una pausa di ben 25 anni durante la quale l’autore lascia il lungometraggio per concentrarsi su documentari e corti, uno dei quali memorabile: E’ successo qualcosa (1987) sull’AIDS che lo espone a critiche feroci e accuse di razzismo. Nel 2000 il ritorno al lungometraggio con lo splendido Canti dal secondo piano (Sånger från andra våningen, 2000) che gli vale la conquista del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes. Un film sul bisogno d’amore e l’incomunicabilità, la confusione che caratterizza le relazioni umane ritratte in quadri immobili dalla fotografia fortemente estetizzante durante uno spaventoso ingorgo stradale che blocca Stoccolma in un non luogo atemporale, surreale e grottesco. Un capolavoro di poesia innervato dalla sottile comicità dell’incomprensibile viver quotidiano, amplificato e fatto emergere da Andersson come Jaques Tati in Playtime (1967) giocava alle giostre con un altrettanto orribile ingorgo, ricavandone un carosello gioioso. Dopo il premio Roy Andersson sparisce per altri sette anni, fino a You, the living – Gioisci dunque o vivente (2007). Ancora una volta, l’occhio del regista scandaglia e seziona la società in cinquanta piccoli quadri di storie che mimetizzano nel nonsense i macroscopici disagi della vita, colori virati verso l’azzurro e il verde, città grigie, istantanee di naïve infelicità. Film di impianto teatrale, dal sorprendente sapore beckettiano nel gusto dell’assurdo e quel rarefatto scorrere temporale che non muta l’esistenza dei bislacchi personaggi in scena, bloccati nella surreale consapevolezza del non senso dell’esistenza stessa. Consapevolezza che si materializza nei misteriosi bombardieri in volo sulla città, in arrivo come Godot non è mai arrivato.
Poi, di nuovo il silenzio per altri sette anni fino a Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza che finalmente ne consacra il talento con il Leone d’Oro e che idealmente chiude la trilogia dedicata all’infelicità dell’esistenza umana. Film pittorico ispirato alle opere di Bruegel e Hopper, l’umanità laconicamente in marcia verso la disfatta più che derelitta, è ridicola. Roy Andersson, teorico del “cinema del trivialismo”, come ama definirsi, è un anarchico vate della coerenza della non narrazione. Bisogna abbandonarsi al surreale senza pretendere una logica consequenzialità degli eventi. Egli è pittore di anime in movimento definiti dallo spazio, le inquadrature, come pesci antropomorfi in un irreale, onirico acquario. Bizzarro senso della comicità, felice pessimismo, ritmo scandinavo, stupefacente e personalissima sensibilità per l’inquadratura e la composizione fotografica delle scene. Il film è diviso, come i precedenti, in 39 piani sequenza a camera fissa entro i quali stancamente si dibattono i suoi personaggi, sconfitti, bolsi, tragicomici. E se Hopper ancora è il riferimento per l’assoluta solitudine delle vite imprigionate nelle inquadrature fisse; se Beckett è il riferimento teatrale per uno spasmodico senso di attesa di qualcosa che mai si verifica; Pieter Bruegel il Vecchio è preso a riferimento di peso nel suo famoso Cacciatori nella neve, nel quale il piccione del titolo è ispirato al volatile che appollaiato sul ramo di un albero guarda scorrere le vite dei mortali e che di tanto in tanto si materializza e gruga nei confronti dei catatonici abitanti del mondo di Andersson.
Che è il nostro mondo, specchio distorto del malessere nel quale fa male riconoscersi e che solo sporadicamente viene interrotto da brevi sipari di felicità, pillole mute di momenti da ricordare – due bambine che giocano con le bolle di sapone; due giovani innamorati in spiaggia; due amanti alla finestra – nell’immensa giostra dell’affannarsi quotidiano. Roy Andersson perfezionista ossessionato dalla profondità di campo, offre una sola scappatoia ai suoi personaggi. Tornare da dove sono venuti, perché il palco che confina con lo schermo cinematografico è il massimo al quale possono ambire. Non c’è futuro. Così in una fotografia marmorizzata nella cenere, in interni squallidi dalle cui finestre si intravede l’infinito, due tristissimi piazzisti di scherzi di carnevale consumano il proprio destino al cospetto di un’umanità sconfitta, profondamente tragica e per questo comica. La morte, l’essere umano, l’amore, la pietà, il potere e l’indifferenza vengono impastate nello stesso meticoloso grigiore, imposte all’assurdità della vita e ad essa assoggettata senza ribellione alcuna mentre una frase, ossessivamente, viene ripetuta al telefono da figure bloccate nel loro tempo e spazio dalla crudeltà dell’esistenza: “ Mi fa piacere che stiate bene”. La frase definitiva. Qualcuno, da qualche parte che non è qui, sta bene. La speranza è lontana. Quello che ci salva è la consapevolezza di essere pupazzi. Mascheroni bianchi che si stagliano nell’iperrealismo color pastello acido degli ambienti, esseri immobili che liquefano il tragico nell’ironico al tempo di una marcetta da circo. Questi sono i personaggi di Andersson, composti come salme viventi in un pugno di film di rara ironia e bellezza, opere uniche svincolate da qualsiasi canone estetico e narrativo. Ed è di nuovo mercoledì.
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