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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Regia di Roy Andersson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

di ed wood
9 stelle

Leoni e Palme d’oro si rivelano talvolta essere riconoscimenti tardivi ad autori che hanno “già dato”. Non è il caso di Roy Andersson, fortunatamente. Certo, un capolavoro assoluto come “Canzoni del secondo piano” non è in alcun modo replicabile, ma certamente questo “Piccione” se la gioca con l’ottimo “You the living”. Il film che chiude la trilogia sull’ “essere un essere umano” si presta al rischio di ripetizione manieristica e compiaciuta di uno stile inconfondibile, riconoscibile in ogni singola inquadratura. Bisogna ammettere che almeno una decina della 39 statiche sequenze che compongono il film risultano tiepide e poco incisive, sia sul fronte ironico sia su quello tragico. E anche la ricerca sul piano formale talvolta lascia il passo ad un vignettismo fin troppo minimale. Tuttavia, al netto di tali cali di intensità e di ispirazione, questo film regala momenti di purissima e trascinante grazia espressiva. Di più: Andersson non si accontenta di ribadire quanto espresso nei film precedenti, ma approfondisce il discorso, estendendone tanto la sfera tematica quanto soprattutto quella stilistica.

 

Dal punto di vista dei contenuti, il “Piccione” verte sul tema dell’infelicità (in una prospettiva, puramente materialistica, di miseria economica), cavallo di battaglia della poetica anderssoniana. La sommessamente feroce polemica contro le istituzioni (la religione e il business ad essa collegata, prese di mira in “Canzoni del secondo piano”) viene traslata qui in un contesto storico, con l’irruzione nel presente delle truppe di Carlo XII. Momento di irresistibile e straziante satira contro il Potere e la sua follia criminale, può tuttavia essere letto anche come deriva onirica di un immaginario grigio, mesto e tedioso. Non è un caso che le due digressioni storiche prendano corpo entrambe le volte in due diversi bar: il luogo in cui affogare nell’alcool la propria tristezza diviene necessariamente l’habitat naturale in cui far sorgere fantasie (quelle dell’autore o quelle dei personaggi, non ha importanza) che conducano ad un altro Tempo, reale o immaginario che sia. L’evasione infatti può essere sia storicamente attendibile e sanguinaria (l’episodio, sontuosamente girato, di Carlo XII) sia mitologica e nostalgica (la locandiera Lotte che dispensa baci in cambio di vodka nel lontano 1943): c’è una forte componente “folk” in questo film, tanto astratto quanto paradossalmente vicino alla gente, alle sue piccole cose quotidiane, alle sue tradizioni.

 

Alla simultaneità nel Tempo (resa sia attraverso il paradosso storico come nel caso di Carlo XII, sia attraverso il flashback come nella scena di Lotte) si affianca quella nello Spazio, a comporre un onnicomprensivo affresco di infelicità cosmica. E anche qui, Andersson si avvale tanto del “montaggio interno” quanto dei tagli. Nel primo caso, valga per tutti l’episodio in cui da una strada viene ripreso, attraverso una finestra, l’interno di un ristorante: fuori, un uomo si lamenta per un problema di proprio conto (un appuntamento di lavoro mancato) e la cosa suscita ilarità, mentre dalla finestra scorgiamo la tragica pantomima di una istruttrice di danza rifiutata dal suo giovane allievo. Quando la scena termina, ci si rende conto di aver sghignazzato mentre in scena si consumava il dramma di un cuore infranto. Cinema della crudeltà, con tutto il candore possibile. Come detto, tale simultaneità (che parrebbe ricondurre il cinema di Andersson fra i contemporanei fautori di un “cinema dell’ubiquità”, i vari Reygadas e Weerasethakul) si esprime anche nel passaggio da una sequenza all’altra: talvolta pare quasi che gli effetti e gli umori di una scena ricadano su quella immediatamente successiva, oppure si riverberino nelle inquadrature successive. Da questo punto di vista, proprio per la notevole, quasi aleatoria frammentarietà, il “Piccione” si configura come l’opera più ardita ed enigmatica di Andersson. E anche la scelta di usare stranianti intertitoli per l’incipit e per l’excipit conferma questa impressione.

 

Sul piano verbale, abbondano i tormentoni, le ripetizioni, le rime interne: l’umanità di Andersson pare talvolta fatta di automi, parente stretta della marionette di Lanthimos (è piacevole constatare come questo vecchio maestro non guardi solo a De Sica, a Tati e al quasi-connazionale Kaurismaki, ma si ricolleghi in modo del tutto istintivo ai grandi autori del cinema contemporaneo). Sul fronte sonoro, la musica la fa ancora da padrona, con canti che annullano ogni distinzione fra diegetico ed extra-diegetico, propagandone le scie di luogo in luogo, di sequenza in sequenza. Nel finale, disturbante come i peggiori incubi, viene raggiunto il culmine della buffa disperazione anderssoniana: la scimmia elettrizzata, il bizzarro forno crematorio e i borghesi che stanno a guardare (e che paiono usciti dall’Age D’Or di Bunuel), l’assurdismo del dialogo finale appartengono tutti ad una visione del mondo dove i peggiori orrori e le colpe più turpi del genere umano si mescolano alla banale quotidianità della gente comune, talora opprimendola e angosciandola talaltra passando come una nuvola, senza lasciar traccia.

 

Fra tante invenzioni, tanti momenti geniali, forse però la scena-chiave è quella che meno ci si aspetta: il saggio dei bambini down, con una ragazzina chiamata a recitare la poesia del piccione. In realtà, non recita nessuna poesia, ma si limita a dire di cosa parla: dopotutto, la Poesia nel cinema è legata all’immagine, e il “Piccione” di Andersson è fra i pochi film contemporanei a ribadire indefessamente il primato poetico dell’immagine filmica. Difficile trovare, di questi tempi, un altro film capace, come questo, di prescindere da trama, psicologia, morale per costruire una tessitura fatta tutta di pure suggestioni e universali sentimenti.

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