Regia di Roy Andersson vedi scheda film
«Ed è così che il mondo finisce», volume ennesimo. Per Roy Andersson, surrealista venuto dal freddo di Svezia, l’apocalisse non è una questione di schianti, né di piagnistei: è una serie di 39 pianisequenza fissi come le vignette di una bande dessinée, 39 quadri di algido pallore, indipendenti ma tenuti insieme da rime e rimandi, attraversati da due venditori che ricordano coppie comiche d’altri tempi, ma non riescono a vendere a nessuno i propri ridicoli prodotti per far ridere. Andersson chiude la trilogia «sull’essere un essere umano» con 39 piccoli teatri dell’assurdo in cui non s’aspetta Godot ma il denaro che manca, un balletto meccanico di uomini vuoti che il respiro lungo dell’inquadratura mette in ridicolo, una danse macabre tragicomica, disperata e rassegnata, che racconta l’agonia della crisi e una fine lentissima. Non c’è un barlume d’affetto se non palesemente mimato (al telefono si ripete, occhi nel vuoto: «Sono contento di sapere che vada tutto bene»), l’umanità è una bestia chiusa in gabbia, il popolo è schiavo (di un re di un altro tempo, di decrepiti intrattenuti dal canto di un nuovo forno crematorio), i corpi sono marionette svuotate, mere estensioni di un capitalismo stremato. E alla fine di tutto, Andersson mette in abisso il suo privilegio d’artista: è giusto ridere del dolore degli altri, goderne come spettacolo? Comico, (auto)critico, politico. Leone d’oro a Venezia 2014.
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