Regia di Mia Hansen-Løve vedi scheda film
Per Mia Hansen-Løve, Eden è un bel salto in termini d’impegno, non solo perché impegnata personalmente fin dal soggetto, nella sceneggiatura e poi, ovviamente, nella regia. Infatti, la finestra musicale d’indubbio fascino, soprattutto per chi ha condiviso quel periodo e/o quella passione, è perseguita seguendo le peripezie del protagonista e anche il quadro d’insieme dei cambiamenti sociali.
L’autrice parigina garantisce l’immersione per due ore abbondanti, riesce a evidenziare una serie di passaggi chiave ma fatica a mantenere coeso un componimento per forza di cose (dis)articolato.
Parigi, inizi anni novanta. La scena della musica elettronica è in fermento quando Paul (Félix De Givry) comincia la sua attività di dj. Insieme al suo migliore amico Stan (Hugo Conzelmann) crea un duo che a fasi alterne conosce anche una discreta popolarità, comprendente l’opportunità di suonare all’estero. Da qui ai giorni nostri, la scena musicale continua a cambiare pelle, i gusti si modificano e confermare l’integrità professionale non produce utili, mentre nel privato Paul è prigioniero di vizi costosi e in amore passa dalla scrittrice Julia (Greta Gerwig) al legame più intenso con Louise (Pauline Etienne), fino a trovare in Yasmin (Golshifteh Farahani) la spalla del periodo più difficile, quello che obbliga a riflettere profondamente sul proprio futuro.
Giunta al quarto lungometraggio, Mia Hansen-Løve mostra intenzioni lodevoli, elaborando un dispositivo che fotografa un’evoluzione singola e sociale, oltre che della musica elettronica da club, con ampia profusione d’illustri partecipazioni, che vanno dagli idoli di casa Daft Punk a leggende della consolle come il gigantesco - in tutti i sensi - Tony Humphries, citando chi non è più tra noi e ha lasciato un segno indelebile come Frankie Knuckles (tanto da essere soprannominato The Godfather of house music).
Sotto il punto di vista della passione musicale, Eden è proprio un paradiso emozionale, che contempla anche le inevitabili zone buie, con un amore granitico per la musica, con dance floor animate da sorrisi e braccia al cielo ma anche quei vizi che possono minare la vita (vedi la voce droga), la difficoltà di emergere e successivamente di rimanere al passo, dovendo fare scelte, a volte troppo difficili.
Così, il djing, con la vita organizzativa di serate in discoteca tra star e piaceri costosi, trova un palcoscenico raro e prezioso, comunque obbligato a fare i conti con un contorno che intende fotografare continui passaggi, ponendo in prima fila relazioni spesso in bilico, le dipartite premature, il successo che viene e poi sfugge dalle mani, restando avviluppati alle continue trasformazioni delle abitudini sociali, che triturano ogni certezza.
Diventa quasi inevitabile la sensazione di eccessivo frazionamento, con troppe entrate e uscite di scena e una focalizzazione sul singolo evento quasi del tutto assente, denotando una sterilità in fatto di equilibri, ma anche nella profondità, pur tenendo vivo un istintivo parallelo tra musica e personaggi, con un sogno destinato a sfumare, portando a toccare il fondo, tra il personale credo musicale e un orizzonte che obbliga a fare altri calcoli per non finire con l’acqua alla gola.
In soccorso vengono comunque alcune singole iniziative (come il live al Moma ps1), aneddoti che arrivano anche al cinema (come una discussione su Showgirls di Paul Vehoeven, con punti di vista esportabili) e una ricca presenza femminile, con un tris di distinti caratteri che vedono succedersi in scena Pauline Etienne, Greta Gerwig e Golshifteh Farahani, tutte assolutamente all’altezza, anche se è la prima a dovere fronteggiare il peso maggiore, riuscendo a sottolineare un prisma temporale di urgenze.
Alla resa dei conti, Eden rievoca con facilità estrema l’effetto nostalgia, effettua un tuffo carpiato in un universo pieno di contraddizioni, rappresentando un melting pot lungo vent’anni, proponendo dei bei volti e personaggi di prima fascia (proprio i Daft Punk fanno un passaggio da guest della porta accanto), faticando terribilmente a tenere tutto insieme, se non attraverso virate troppo brusche.
La sbornia di musica elettronica è assicurata, a latitare è però il corpo dell’opera, che non può andare oltre a essere un guilty pleasure.
Comunque imperdibile per gli appassionati del movimento e dei nomi citati.
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