Regia di Mia Hansen-Løve vedi scheda film
Del cinema di Mia Hansen-Løve ci piace la misura. La distanza che sa porre tra l’occhio che guarda e il mondo messo in scena. Perché da così lontano, da così vicino, con una cronaca d’opaco candore, sa raccontare l’uomo e, insieme, l’ambiente. La storia di Paul, l’ascesa e la caduta della sua carriera da dj, l’aprirsi e il chiudersi dei suoi orizzonti. Il suo futuro possibile, passato di moda con il tramonto dell’era che, dal buio dell’incipit, abbiamo sentito albeggiare. Come in Qualcosa nell’aria per gli anni 70, il sentimento della Storia si legge nei sogni sognati da una generazione. Che qui battono, solipsisti e anti-ideologici come i 90, al ritmo del french touch, al Paradise Garage, nel mito dei Daft Punk. Il realismo della Hansen-Løve segue Paul con pudore, il suo racconto è dolce, pacato, mai melodrammatico. La musica non sentenzia, non dice le emozioni dei personaggi, ma è un dato storico, un elemento d’ambiente, la materia reale di cui è fatto il loro velleitarismo, il desiderio, l’idea che han di se stessi. Eppure, nel nitore di questo cinema rigoroso, che si trattiene dall’inoltrarsi nello psicologismo, è chiaro che ogni momento è un brandello di memoria, e che ogni ruolo, co-protagonista o comparsa, è come assegnato da Paul. Alla fine, in una panoramica circolare che sfoca nei suoi occhi le cromie della disco, c’è un computer, non un giradischi. Sono gli anni che passano. La gioventù di Paul se n’è andata, con i suoi amori. E lui un poco, con essa, e lui non ancora.
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