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Il regno d'inverno - Winter Sleep

Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film

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La recensione su Il regno d'inverno - Winter Sleep

di Peppe Comune
8 stelle

Aydin (Haluk Bilginer) è un vecchio attore di teatro che gestisce un piccolo albergo situato in Cappadocia, sui monti dell’Anatolia centrale. Ritiratosi ormai dalle scene, da qualche anno si è dedicato alla scrittura di articoli su diversi aspetti della vita culturale della Turchia ed è intenzionato a scrivere un libro “conclusivo” sulla storia del teatro del suo paese. È inoltre il padrone di numerose proprietà della zona, gestite per lui dal fidato Hidayet (Ayberk Pekcan). Il luogo non è propriamente ospitale, ma la bellezza naturalistica, la presenza di abitazioni ricavate direttamente dalla roccia, unite alla particolare morfologia fisica del territorio, bastano ad attirare turisti da ogni parte del mondo. A gestire l’albergo con lui c’è la sorella Necla (Demet Akbag), una donna orgogliosa che da quando ha divorziato dal marito si è lasciata ingrigire dalla vita. Poi c’è sua moglie Nihal (Mlisa Sozen), una donna giovane e bella che gestisce una fondazione che si occupa di fare opere di bene per i poveri abitanti della regione. Da anni Aydin e Nihal hanno rapporti contrastati e l’unica preoccupazione della donna sembra essere quella di tenere il marito lontano dai suoi affari.  Il luogo dove sorge l’albergo è molto bello, ma non offre molte possibilità di svago, soprattutto durante gli inverni innevati. Cosa che contribuisce non poco a generare una convivenza forzata che spesso supera i limiti della reciproca sopportazione.

 

Haluk Bilginer

Il regno d'inverno - Winter Sleep (2014): Haluk Bilginer

 

Liberamente ispirato al racconto “Mia moglie” di Anton Checov“Il regno d’inverno” di Nuri Bilge Ceylan (Palma d’oro a Cannes) è un film costruito intorno alla potenza prorompente della parola, usata come per imprigionare ogni personaggio nel suo freddo egoismo, come per rinchiudere la narrazione stessa in un andamento circolare senza via d’uscita.

Ceylan è ormai un autore di indiscutibile spessore, con un’impronta registica riconosciuta e riconoscibile. Ma l’originalità autoriale non viene affatto intaccata se a questa vi aggiungiamo riferimenti più o meno evidenti. Per questo film ho scorto echi di Theo Anghelopoulos e Ingmar Bergman (ci starebbe anche Manoel De Oliveira per la centralità capitale data alle parole). Del primo si avverte la natura espandente del racconto, l’ampiezza “storicistica” catturata da ogni movimento di macchina. Del secondo, il senso morale che si vuole attribuire ad ogni comportamento, il valore delle scelte individuali, la coscienza di sé in relazione al mondo che ci circonda. Tutte cose che, come succede col maestro svedese, muovono da implicazioni religiose anche se profondamente laici rimangono i loro contenuti fattuali.

L’ambientazione brulla ed innevata dell’Anatolia è tutto, palcoscenico votato all’inazione e scenario corruttore della calma apparente. Un luogo letargico che adombra l’animo umano, capace di costringere ognuno a dover misurare in ogni istante la lontananza che lo separa dal resto del mondo. La macchina da presa lo avvolge in una cappa di misurata sacralità, i campi lunghi offrono alla vista silenti spaccati di beatitudine, gli interni domestici scuotono i personaggi dal loro forzato torpore, costringendoli a confrontarsi con l’inevitabile immobilismo delle loro esistenze. In questo contesto che vibra di essenze speculative, le parole disegnano le traiettorie telluriche di inevitabili rese dei conti. Sono come delle barriere che servono ad ognuno per fortificare punti di vista incorruttibili, come una fortezza che vuole impedire che si finisca schiacciati sotto i colpi ferini delle ragioni altrui. Si parla tanto e sempre a ragion veduta, per ripararsi dalle ondate di accuse reciproche che raggelano il cuore, per ricacciare dentro la sensazione drammatica di aver sbagliato tutto, per assecondare la rabbia e dargli una più “civile” valvola di sfogo. Maestro di retorica e sapiente arredatore di parole, Aydin vive anche una vita troppo agiata per non emergere per contrasto nella povera regione dove sorge il suo albergo. Non è evidentemente un caso che all’inizio del film, dopo che si è perlustrato con un paio di ampie panoramiche il magnifico scenario naturalistico e mentre Aydin è alla finestra girato di spalle, Ceylan si avvicini al suo capo muovendo la macchina da presa con una lenta carrellata in avanti. È la sua personalità complessa il centro d’irradiazione dell’intera narrazione. Aydin può essere, contemporaneamente, un intellettuale che in vita ha praticato l’arte della finzione o un attore che dal teatro ha ricevuto in dono la possibilità di fare pratica con diversi saperi. Due aspetti disgiunti che in lui si coniugano nell’unicità di un carattere poliedrico e spigoloso, contradditorio ed affascinante insieme. Aydin è un uomo che cerca di penetrare le cose dello spirito ma che poi rimane sostanzialmente lontano dai bisogni concreti delle persone, dimostrandosi totalmente incapace di interpretarli nel loro reale verificarsi, di inquadrarli nella loro corretta dimensione spazio temporale. Tanto incline ad appassionarsi ai rapporti di causa effetto che intercorrono tra le cose del mondo, quanto portato a mostrarsi indifferente riguardo all’analisi sui perché e i per come che determinano i comportamenti delle persone che gli vivono accanto. Un uomo che vive di passioni accecanti ma che talvolta ostenta un’aridità di sentimenti davvero disarmante, idealista per tensione morale ma anaffettivo per tempra caratteriale. La sua alterigia palesa un senso di superiorità appena mitigato dall’uso coscienzioso delle buone maniere. Si è tutti succubi del carisma di Aydin. Ogni confronto con lui è destinato a risolversi in dispute dialettiche improduttive. Lo spirito di contraddizione viene esercitato per partito preso, palesandosi sempre ben oltre la sua pertinente consistenza. Nihal preferisce stargli il più lontano possibile, per vivere in totale autonomia la convinzione di essere una persona migliore per il solo fatto di dirigere una fondazione che si occupa di aiutare il prossimo. Necla, invece, vuole trovare le ragioni dei suoi fallimenti nell’ombra “classicheggiante” prodotta dal fratello.

Le caratterizzazioni dei personaggi, le relazioni che intercorrono tra di loro e la morfologia di un territorio che li costringe ad una forma di immobilismo che sembra non voler conoscere soluzioni, sono aspetti messi in scena da Nuri Bilge Ceylan in un modo che fa pensare all’intenzione ricercata di voler evocare i caratteri salienti della Turchia : il suo tendere verso il mondo globalizzato nel mentre è restia ad emanciparsi del tutto da certi atavici retaggi culturali ; il suo essere un paese di grande cultura ma con una palese difficoltà a concedersi nuda al mondo ; il suo vivere in maniera squilibrata la relazione tra le libertà determinate dalla coscienza laica della maggior parte del suo popolo e i limiti imposti dalle istituzioni teocratiche ; le forti contrapposizioni culturali che agiscono come scosse di assestamento sotto l’epidermide del tessuto sociale.

I libri raccontano la vita, ci aiutano a capirla meglio e di più. Ma poi la vita va vissuta per quella che è, assaporata fino in fondo dal di dentro, in tutta la sua imprevedibile mutevolezza. Ecco, il cinema di Nuri Bilge Ceylan fa emergere l’attitudine di volersi cibare della vita sublimandola in una narrazione di chiara impronta letteraria, naturalmente proteso a dare ampio respiro alle sue storie, ad instaurare con loro un rapporto alla pari che oscilla tra la caratterizzazione “umanizzante” dei personaggi e il modo sottinteso con cui si lascia scorgere il come la Turchia incombe sulle loro vite. Potrebbe essere definito l’Orhan Pamuk del cinema turco : per l’abilità di saper parlare del paese attraverso le storie delle persone che lo abitano. Tra la capacità di essere e l’impossibilità di mostrarsi. Proprio come Aydin. Cinema adulto.          

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