Regia di Francis Lawrence vedi scheda film
Arduo stabilire se sia più irritante quel "ghiandaia imitatrice" ripetuto all'incirca una quarantina di volte, oppure vedere seduti allo stesso tavolo Julianne Moore (new entry), Jennifer Lawrence e (il compianto) Philip Seymour Hoffman discorrere di beate banalità tipiche dell'universo teen-distopia (quantunque spacciate per chissà quali profonde riflessioni).
Ovvero, l'unico vero dilemma che suscita la prima parte del capitolo finale degli Hunger Games. Episodio inevitabilmente monco e inelluttabilmente moscio, sorta di trailer promozionale allungato per quello che verrà (che s'immagina dia fuoco alla rivolta e a un minimo di spettacolo accettabile, finalmente).
Due orette in cui (troppo) poco accade, caratterizzate - evidentemente per darsi un tono "adult" a discapito dei sospirosi mot(t)i "young" - da una (illogica) aria di gravità e tragicità che si fa via via più pesante, sproporzionata (rispetto ad eventi, personaggi, situazioni), ammorbante; alimentata, com'è, da innesti tematici buttati lì alla bell'e meglio. Meri artifici, motivi già sentiti, imitazioni (altro che uccelli) di pensieri e concetti complessi (il ruolo dei media come mezzo di propaganda, strategie e mistificazioni nell'arte della guerra, ambiguità e follia di chi detiene il potere) presi un po' da dove capitava. Senza curarsi, oltretutto, del progressivo stridore causato dal contrasto incontrollato con altri elementi, quelli "conformi" al target di riferimento, legati in particolare alla sfera emozionale (spicca la noiosa, stucchevolissima faccenda Katniss-Peeta) e all'iconografia che l'eroina e la saga YA ideata da Suzanne Collins incarnano.
Perché poi, comunque, il senso generale di Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I sta tutto nelle parole (emblematiche sebbene nient'affatto intenzionali) di Hoffman/Plutarch Heavensbee (quella dei nomi "fantasiosi" è un'altra fastidiosa faccenda): «faremo di lei la ribelle meglio vestita della storia». Anche su questo, volendo, ci sarebbe di che obiettare; ma tant'è, l'importante è che "lei" continui ad essere Jennifer Lawrence, pur costretta a sgranare gli occhioni, a versare lacrime (poco credibili) e riproporre (stancamente) espressioni a comando in una veste che ormai è un brand modaiolo di sicura garanzia.
Detto dello spreco di grandi attori in personaggi e dialoghi puerili, da menzionare tra i volti in secondo piano (oltre al Robert "T-Bag" Knepper di Prison Break, ma il suo in pratica è soltanto un cameo) l'inglesina Natalie Dormer (tra gli altri Margaery Tyrell in Game of Thrones), fighissima e incisiva come spesso ci ha abituati (mal sfruttata anche lei, ovviamente): suo l'unico look veramente indovinato del film.
Spreco e inerzia d'altronde sembrano essere la direttiva principale del regista, il riconfermato Francis Lawrence, incapace di sostenere le parti statiche, d'introspezione, ma specialmente inadeguato nel girare sequenze action (non riesce a generare il benché minimo "entusiasmo", mentre semplicemente sorvola sulle potenzialità del "film nel film", le riprese cioè "dal vero" sul campo a fini propagandistici), limitandosi a svolgere il compitino.
Non rimane che attendere la seconda ed ultima parte, già girata (come nella miglior tradizione della saghe, contemporaneamente alla pima) per chiudere il dannato becco alla molesta ghiandaia.
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