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Eisenstein in Messico

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Eisenstein in Messico

di port cros
7 stelle

Nel suo ultimo film, Peter Greenaway, la figura del grandissimo regista del cinema sovietico Sergej Eisenstein, raccontando un particolare episodio della sua vita, i 10 giorni trascorsi nel 1931 nella città messicana di Guanajuato, durate i quali filmò centinaia di chilometri di pellicola per la realizzazione di un film che non riuscirà mai a completare, finanziato dallo scrittore americano Upton Sinclair, mentre il regime regime stalinista cercava di farlo rientrare in patria, sospettandolo di tradimento per il prolungarsi eccessivo del suo soggiorno all'estero. In realtà questi fatti rimangono sullo sfondo nel film di Greenaway, che preferisce concentrarsi sull'iniziazione erotica dell'ancora vergine Eisenstein da parte della sua guida messicana, il professore di religioni comparate Palomino Cañedo. Il genio pioniere dall'arte cinematografica con le sue opere Sciopero, Ottobre e la Corazzata Potemkin ci viene presentato da Greenaway come una personalità straripante, eccentrica e logorroica, che rivela tuttavia una profonda insicurezza a livello personale e soprattutto sessuale, definisce il suo un “corpo da clown” e in patria pare non aver mai osato avvicinarsi al sesso, anche a causa del clima di repressione che circondava l'omosessualità all'epoca. Dunque la “rivoluzione sessuale” vissuta dal regista russo durante il soggiorno messicano è da Greenaway paragonata nei suoi effetti deflagranti allo sconvolgimento causato dalla rivoluzione bolscevica, tanto che il titolo occidentale del suo capolavoro Ottobre, “i dieci giorni che sconvolsero il mondo” viene parafrasato in “i dieci giorni che sconvolsero Eisenstein”. Greenaway non si fa trattenere da falsi pudori nel filmare scene di sesso esplicite e nel mostrarci nudi frontali , ma mantiene sempre un registro goliardico, affidandosi all'estro bizzarro e autoironico del suo protagonista: la scena della perdita di verginità di Eisenstein, lascia poco all'immaginazione, ma diverte anche molto, accompagnata com'è da una dissertazione sulla storia della sifilide e conclusa con una bandiera sovietica tra le chiappe.

 

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Il film è anche un'immersione insieme al protagonista nella cultura messicana, soprattutto nei suoi aspetti più misteriosi e macabri. La morte è l'altro grande tema del film, che ritorna in molte scene, dalla danza con i pupazzi-scheletri, alle maschere di teschio indossate dai due amanti, alla vista all'impressionante museo delle mummie di Guanajuato, alle riprese morbose dei cadaveri delle vittime della frana, fino al ricorrente battere di una chiave inglese sui tubi, un presagio della futura morte del regista russo.

 

Elmer Bäck

Eisenstein in Messico (2015): Elmer Bäck

 

Come nello stile collaudato di Greenaway, il film è visivamente sorprendente, e il regista inglese si diletta a stupirci sperimentando le invenzioni tecniche più originali, passando dal bianco e nero ai colori più sgargianti, facendo uso ricorrente dello split screen, affiancando le immagini dei personaggi alle fotografie d'epoca dei veri personaggi storici rappresentati, presentandoci insieme la scena ripresa da diverse angolazioni, in un continuo di trovate a volte persino eccessive ( mi girava la testa nella scena in cui la macchina da presa ruota vorticosamente in tondo intorno al letto). Il talento visionario di Greenaway anche stavolta ha modo di regalarci una serie di scene di grande pregio: tra le più belle la danza con i manichini degli scheletri.

 

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L'attore protagonista, il finlandese Elmer Back, dà pienamente corpo (anche nudo) all'Eisenstein immaginato da Greenaway: estroso e dandy, eccentrico, incontenibile e logorroico. La pecca maggiore del film è, a mio parere, proprio un eccesso di verbosità: meglio avrebbe fatto Greenaway a far parlare meno protagonista, che a volte risulta fastidioso nel suo citare in maniera pedate e ridondante personaggi conosciuti ed episodi vissuti, appesantendo inutilmente molte scene con il carico di di troppe parole inutili, quando sarebbe stato più efficace far parlare semplicemente le immagini.

 

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