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Eisenstein in Messico

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Eisenstein in Messico

di EightAndHalf
8 stelle

 

BREVE INTRODUZIONE

 

Eisenstein in Guanajuato è stato presentato in anteprima al Sicilia Queer FilmFest 2015, dopo essere stato accolto entusiasticamente al Festival di Berlino. L'apertura del Queer è avvenuta nel migliore dei modi, con un afflusso di gente davvero inaspettato e imprevedibile, tale da lasciare fuori molti spettatori giunti per l'anteprima. Si è iniziato alle 18,30 con concerti all'aperto proprio di fronte alla Sala De Seta, ad opera dell'Orchestra della Bottega delle Percussioni, e dopo un rapido spuntino la folla si è accalcata nel cinema per vedere l'ultima fatica di Peter Greenaway, dopo l'annuncio di inizio del festival da parte della madrina Fulvio Abbate, dopo la proiezione del trailer del festival, AmoreModerno, ad opera di Arnold Pasquier, e dopo le doverisissime frasi in ricordo di Daniela Meucci, anima del Cineclub Arsenale di Pisa, e di Nicola D'Ippolito, palermitano sostenitore della lotta contro la omofobia e la transfobia. Due tragiche perdite avvenute negli ultimi giorni, per le quali Andrea Inzerillo ha dedicato sentitissime parole. Dopodiché, si è partiti con Eisenstein in Guanajuato.

 

Verbosa libidine.

Non è la prima volta che in un film di Peter Greenaway veniamo crivellati da quella mitragliatrice che è la sua macchina da presa. Non smentendo la carica spesso irriverente e mai gratuitamente provocatoria che caratterizza tutti i suoi film migliori, il regista inglese offre agli occhi dello spettatore uno splendido spaccato biografico ("biografico" si fa per dire) del geniale, controverso, cineasta russo Sergej M. Eisenstein, inquadrato durante il viaggio in Messico che lo portò alla realizzazione di Que Viva Mexico!, film lasciato incompiuto ma per il quale Eisenstein realizzò chilometri e chilometri di pellicola (paragonata nel film, giustamente, ad altre opere monumentali come Intolerance di Griffith, o il martoriatissimo Greed di von Stroheim). Eppure, a Greenaway, che pure non dimentica davvero di chi sta parlando, non interessa documentare gli eventi che caratterizzarono le riprese. A dire il vero, il film di Greenaway sembra usare solo come pretesto il tempo cronologico, per racchiudere alfine nel suo film, tramite fulminanti ellissi, ciò che veramente gli è a cuore, probabilmente, cioè l'atto stesso della creazione artistica, e della sua formulazione teorica tramite l'osservazione e la riflessione. Non abbandonando l'abitudine di trattare esplicitamente (e da buon esteta) il rapporto fra Arte e Vita, e come esse si confondano, o si sostituiscano quando l'una o l'altra è precaria, Greenaway mette in primo piano le scoperte e i turbamenti del cineasta russo, imperniando un punto importante del suo ramificato discorso sul corpo stesso di Eisenstein. Ciò non vuol dire che il film risulti davvero "corporeo", carnale (non mancano affatto le scene di sesso, anzi, ce n'è una abbastanza esplicita e divertente), ma diventa la conferma dell'assetto prettamente teorico del cinema greenawayano. 

 

Elmer Bäck

Eisenstein in Messico (2015): Elmer Bäck

 

Tutto il film, elegante raffinato e sfacciatissimo, è un turbinio di teoria, di riflessione estetica sul montaggio e sull'arte visiva. Greenaway riesce a mantenersi coerente con i suoi articolatissimi assunti, e a portare avanti un discorso preciso sulla consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità, trasfigurando quelle corporee in quelle cinematografiche. Eisenstein in Guanajuato è un film di apertura all'immagine, come se vedendolo ci affacciassimo su stimoli sempre nuovi. L'utilizzo continuo del grandangolo, e la fotografia patinata e in alta definizione, rendono conto proprio di questo intento: Sergej scopre il suo corpo (smettendo di parlarne), con quella stessa tensione con cui Greenaway appare combattuto fra il trasporto fisico e voyeuristico nei confronti, per esempio, dei corpi nudi, e l'asetticità scherzosa e teorica del bizzaro entomologo quale si confermava essere in Goltzius and the Pelican Company, forse ancora più teorico e più eccessivo, ma meno "dubbioso". Greenaway non alleggerisce il comparto estetico che lo contraddistingue da anni, ma progredendo nelle sue solite peregrinazioni metatestuali finisce per arrivare al nocciolo del suo modo di fare cinema, com'è evidente nella scena di sesso fra Sergej e Palomino Canedo.

 

Elmer Bäck, Luis Alberti

Eisenstein in Messico (2015): Elmer Bäck, Luis Alberti

 

Dopo aver ripreso i primi istanti del rapporto erotico dei due uomini smorzandone l'effetto invadente e provocatorio tramite la parlantina esilarante di Palomino, improvvisamente decide di zittire entrambi i suoi personaggi e di farli catturare dalle gioie carnali del momento. Greenaway si mantiene distante, il suo grandangolo offre all'occhio dello spettatore la possibilità di posarsi su dettagli apparentemente secondari (la stessa costruzione dell'immagine appare sempre ricca, ricchissima di dettagli volontari), ma si avverte in qualche modo la tentazione di lasciarsi trasportare. Così avviene in alcune scene successive, finanche al risvolto drammatico finale, che dà l'idea di una storia quasi romantica, su cui Greenaway sembra scherzare solo fino a un certo punto. La malinconia tracciata sul volto piangente di Elmer Back è in fondo la concretizzazione "emotiva" del lento approcciarsi alla morte di un uomo che, scoperta la vita, forse è ancora più vicino alla Fine. 

 

Luis Alberti, Elmer Bäck

Eisenstein in Messico (2015): Luis Alberti, Elmer Bäck

 

Certo, Greenaway non drammatizza eccessivamente, rende giocosi anche i momenti più "macabri", ma il dramma umano appare realmente sentito, benché frammentato nell'adozione continua, schizofrenica, dello split screen e della deformazione plastica dell'immagine. Come in un costante stato di tensione (sotterranea) fra forma e contenuto, Greenaway riannoda i due poli raccontando l'atto creativo, e le possibili fonti di ispirazione dello stesso (prima la frustrazione, poi l'appagamento). Il suo film, come accade spesso, travalica lo sperimentalismo e affonda a piene mani nel gusto postmoderno. Esplicitando la finzionalità dell'intera materia visiva, il regista inglese sembra spesso frammentare l'immagine come a ricordarne la provenienza (cioè a dire la successione ipercinetica di immagini istantanee), e questo appare evidente nella sequenza in cui la cameriera porta la colazione al campanaro cieco. Allo stesso tempo, però, Eisenstein in Guanajuato appare come un'esperienza vibrante e immersiva, una pura gioia per gli occhi, come avviene nella sequenza del pasto con Mary Upton Sinclair e il marito: muovendosi fluidamente fra le colonne dell'edificio, Greenaway gestisce dei decadrages mozzafiato, in cui offre continuità visiva alla sequenza pur rendendo evidente il fatto che non si tratti di un pianosequenza: l'utilizzo dei trucchi e degli effetti speciali diventa segno stesso della finzione, della ricostruzione, che è teoria arida ma stimolante tentata dalle possibilità della vita (del cinema).

 

Elmer Bäck

Eisenstein in Messico (2015): Elmer Bäck

 

Sebbene nella seconda parte ci sia un leggero calo in brillantezza, la nuova fatica di Peter Greenaway appare come un nuovo curiosissimo ritratto d'artista, e un interessantissimo esempio di uso nuovo dell'immagine (frastornante, moltiplicativa, quasi estenuante). Come a fare tesoro della lezione di René Clair, di Dziga Vertov e ovviamente dello stesso Eisenstein, e nobilitando la materia narrata con la sublime musica di Mozart (continuo leitmotiv), Greenaway trasforma il panorama sciamanico jodorowskiano che certamente influenzò Eisenstein per Que viva Mexico! in strumento per un ritorno agli istinti, e per narrare la tentazione di lasciarvisi andare celatamente, dietro la maschera della bizzarria e della violenza estetica (frammentarismo figlio del sublime cinema eisensteiniano).

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