Regia di Andrej Zvyagintsev vedi scheda film
Il mostro marino, scarnificato eppur ancora possente, di una potenza contro cui inane è il destino di ogni oppositore, compare all’inizio ed alla fine. Solido, piantato nell’acqua come origine e derivazione vogliono, il Leviatano è pronto a farsi beffe dei piccoli e grandi Giobbe che ne incrocino il cammino. Dice bene allora il prete: la rassegnazione è l’unica arma a disposizione per evitare o rimandare la fagocitazione. Ma non tutti hanno la proverbiale pazienza di Giobbe, non tutti possono abbandonarsi inerti alla concatenazione di avvenimenti che, si chiamino Dio, caso e soprattutto Stato, spingono nell’unica direzione dell’annullamento.
Leviathan è un film dal determinismo cristallino, a volte appena troppo programmatico, tuttavia in grado di rappresentare con forza ed incisività il destino segnato di un uomo che si trova a combattere contro forze più grandi di lui e della propria non guerreggiante anima, siano esse esogene (il sindaco, il potere costituito, il Leviatano ufficiale) o endogene (una moglie ed un amico infedeli, una morte, altri avvenimenti che cancellano il passato ed inglobano il futuro, facendosi facili alleati di quelle ruspe che distruggono case e tracce del sé che si è stati). Zvyagintsev (già autore di altre buone prove, tra cui il premiatissimo Il ritorno, breve storia di un difficile e rude confronto tra un padre ed i figlioletti) si affida a scene di ampio respiro scenico ma soffocante sottotesto, per confezionare la metafora che percorre tutta la sceneggiatura del film. La scena della gita al fiume è in questo senso indicativa: un dipanarsi finalmente placido che sarà tuttavia, di lì a poco, turbato dal Mostro in una delle sue temibili incarnazioni. Ed il regista ha evidente talento nella rappresentazione, forse più degli ambienti che fanno da sfondo al dramma che dei caratteri, a volte tagliati con un pizzico di grossolanità (il sindaco che, nell’attesa della notizia dell’annullamento del proprio modesto avversario, si ingozza a tavola oppure va periodicamente a confessarsi, in un tipico ed abusato esempio di lavaggio di peccati e coscienza; la moglie che non regge il peso del peccato, topos su cui molta grande letteratura russa si è esercitata con esiti indubbiamente più alti). Sono le inquadrature dei fondali esterni che restituiscono, più dei dialoghi e di una sceneggiatura, si diceva, lievemente prevedibile, un reale senso di angoscia e che permettono allo spettatore di avvertire la profonda eco del Leviatano, creatura che Hobbes riferiva alla potenza cieca dello Stato e che, nell’opera russa, viene rappresentato in una forse eccessiva multidimensionalità (Stato, Dio, inadeguatezza personale).
Premesso questo, non può che riconoscersi importanza al lavoro di Zvyagintsev. Anche perché, a ben guardare, ed appena lasciata decantare l’emozione della prima visione, può intuirsi che il film pone sul tappeto questioni che investono l’attuale essenza dello Stato russo, dalla fine del comunismo ad oggi costantemente implicato in azioni e situazioni che danno una realmente plastica rappresentazione del potere, della sua forza ma anche della sua debolezza travestita da maschera rude. La Russia è il Leviathan, il suo popolo minuto, fornito soltanto di una capacità di sopportazione fomentata dalla vodka, eppure non inesauribile, il minuscolo Giobbe che ha però smesso di credere. Del resto ogni cambiameno traumatico può apportare vantaggi ma anche smarrimenti, nella perdita d’ideali fidelistici di cui i manovali dello Stato si erano sempre cibati. E’ questa la metafora ultima (o primigenia) del film: magari facile, ma rappresentata con eleganza.
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