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Leviathan

Regia di Andrej Zvyagintsev vedi scheda film

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La recensione su Leviathan

di (spopola) 1726792
8 stelle

Così come tutti noi, per nascita, siamo marchiati dal peccato originale, allo stesso modo tutti nasciamo in uno “stato”. Il potere spirituale dello stato sull’uomo non conosce limiti. (Andrei Zvyagintsev)

 

Elena Lyadova

Leviathan (2014): Elena Lyadova

 

Leviathan, disillusa  rilettura in chiave contemporanea del mito di Giobbe, è un anomalo thriller duro e disperato, teso crudele ed allegorico, che riflette (e invita lo spettatore a fare altrettanto) sul difficile equilibrio esistente tra giustizia e ragione.

Questa nuova, corposa e tragica parabola “didatticamente” filosofica che pone il problema dell’arroganza burocratica e corrosiva del potere, è anche un folgorante apologo che trae linfa e sostanza dai volti e dagli spazi dei luoghi presi a riferimento (quelli in cui si svolge l’azione). Ancora una volta il regista parte dunque da una circostanza specifica alla quale resta saldamente ancorato, per raccontarci le miserie (ma al tempo stesso anche le virtù) dell’uomo.

Nel film, ogni figura è perfettamente messa a fuoco ed è emblematica nell’essere funzionale alla tesi sposata, finalizzata a far emergere chiaro e lampante, il giudizio palesemente impietoso, sull’insidioso, indistricabile intreccio fra Chiesa Ortodossa e Politica, entrambe accomunate (e sodali) nella tracotante gestione di un’egemonia prevaricante chiamata a stabilire regole per tutti e di imporre a tutti il rispetto di tali regole rendendole obbligatorie.

Zvyagintsev insomma, non perde mai di vista il contesto antropico e geografico entro il  quale ha sviluppato e reso esplicito il suo teorema che parla di delusione, di “soprusi”, dell’avvilimento scoraggiato e scoraggiante generato dai tradimenti di sangue spesso subiti dall’umanità in nome di un “disegno” superiore difficile da comprendere ed accettare.

Adottando l’efficace forma della metafora indotta, porta così in primo piano il disfacimento della società russa e la sua ormai perduta integrità morale mettendo in scena con sfiduciato scetticismo (Domenico Barone lo paragona a quello dei romanzieri dell’Ottocento) non solo le drammatiche conseguenze della sistematica privazione di una libertà in bilico perenne tra una atavica (in)capacità di reazione e l’altrettanto perniciosa accettazione di compromessi  pagati a caro prezzo, ma anche della (deprecabile?) sottomissione che di fatto tende ad annullare il libero arbitrio e a rendere l’uomo schiavo persino di se stesso.

Lirico e bellissimo, affascinante nella sua costruzione a spirale nel cui gorgo precipiteranno stretti in una morsa infernale uomini ed eventi, il film descrive dunque ciò che resta di una condizione umana fragile e peccatrice, narrando una storia di crudo realismo (ma zeppa di segni e simboli  e tutt’altro che priva di elementi di “alleggerimento” necessari per smorzare un poco la tensione) ambientata in un piccolo villaggio della Russia settentrionale ubicato sulle sponde del mare di Barents.

Ricca di gustose notazioni  sulle abitudini e i costumi della popolazione locale, Leviathan è dunque un’opera che denota e sottolinea anche il fortissimo legame di appartenenza (e di radicamento) del regista alla sua terra che si traduce, sul piano della costruzione narrativa, in una grande attenzione alla dimensione lirica del paesaggio, quasi che Zvyagintsev intendesse bilanciare così (ma al fine di renderla più evidente, leggibile, e conseguentemente anche più efficace, non certo per dare un colpo al cerchio e uno alla botte) l’astrazione tematica  religiosa e “dottrinale” dell’opera con una altrettanto scrupolosa osservazione antropologico-culturale di stampo documentaristico delle pratiche sociali di quella comunità, dalle più formali (le udienze in tribunale) a quelle maggiormente ludiche (come le gite domenicali, per esempio) che caratterizzano un ambiente (in apparenza tutto solidale), con particolare  riferimento alle abitudini alcoliche (ai “vizi” si potrebbe dire) di quel gruppo di persone isolato dal mondo e dalla Storia, dimenticato (addirittura bistrattato direi) da Dio e dagli uomini, che cerca con ogni mezzo di mantenere comunque attiva almeno l’illusione della sopravvivenza fattiva, ma che all’atto pratico non fa altro che attendere passivamente (e rassegnatamente) senza ribellarsi, una specie di punizione divina. Il tutto, annotato con implacabile precisione entomologica e il ricorso frequente al coercitivo, brutale e primitivo esercizio della forza che crea (nello spettatore) quella ansiogenicità necessaria per rendere tangibile il senso di (spasmodica) attesa della tragedia che puntualmente si paleserà in un finale di altissimo valore simbolico ma fondamentale per la straordinaria capacità che ha di ribaltarsi (anche nel senso) rispetto alla parabola biblica di riferimento. Leviathan sembra infatti voler alludere alla mancanza della presenza effettiva di un essere superiore e dei suoi imperscrutabili disegni, che domina le vite individuali dei mortali a cui dobbiamo necessariamente credere ciecamente per poter accettare passivamente le sofferenze imposte per qualche ragione che non ci è dato di conoscere, ma che comprenderemo meglio nell’aldilà (ammesso che ci sia) dove – ci viene detto - finalmente sarà fatta giustizia dei torti subiti nella vita terrena. Nel film infatti non c’è  alcuna ipotesi compensativa  nemmeno nei bellissimi, maestosi paesaggi che gli fanno da cornice, e men che meno da parte di una chiesa poco accogliente e tutt’altro che confortativa le cui responsabilità qui sono ben stigmatizzare, anche se ad essere messi sotto accusa sono soprattutto i tre poteri “forti”(legislativo, esecutivo e giudiziario) su cui si regge tutta l’impalcatura della nostra società (che continuiamo a pretendere di voler definire democratica).

Assistendo allo svolgimento della storia insomma, è davvero impossibile non dico intravedere, ma anche semplicemente immaginare, l’esistenza di un’entità divina che regola tutto quanto (e  che può dare – a chi crede - un senso persino alla sofferenza): c’è solo il vuoto delle anime e il silenzio stordente rotto solo dal vento implacabile che sferza quelle suggestive lande.

scena

Leviathan (2014): scena

I disastri che costellano la vita del nostro protagonista, si susseguono così uno dopo l’altro (esattamente come nel libro di Giobbe), ma è palesemente dimostrato che non è certo satana a metterlo alla prova, quanto invece - più prosaicamente e “terra terra” - l’accanimento del sindaco del paese (che rappresenta appunto la forma minore e più periferica - ma non meno invasiva - dell’ingerenza statale anche vessatoria che grava con i suoi soprusi, sulla vita dei singoli individui invece di proteggerli – come dovrebbe fare - per garantire loro giustizia e libertà).

 

scena

Leviathan (2014): scena

 

Suddividendo con cura e perspicacia il film in due parti (la prima caratterizzata da quelle fortissime dosi di ironia a cui ho accennato prima che prendono di mira la storia politica della sua Nazione, oltre alle altrettanto malsane abitudini legate al bere e alla sopportazione passiva dei soprusi) e una seconda  in cui invece prende sempre più piede il “destino” di sofferenza del novello Giobbe suo protagonista, Zvyagintsev riesce davvero a disegnare un mondo praticamente al limite del vivibile dentro al quale sono appunto i desolati, stupendi paesaggi di quelle lande ai confini del mondo e della civiltà, già ampiamente esplorate nella sua opera premiata a Venezia qualche anno fa che ce lo aveva fatto conoscere ed apprezzare (Il ritorno) ad essere fondamentali nel renderci palese e in progressione costante, la totale solitudine (umana) di quella gente, resa agghiacciante dalla glaciale staticità fatta di interminabili attese e indecifrabili silenzi nel trascorrere immutabile e implacabile del tempo.

Aleksey Pavlov, Aleksey Serebryakov

Leviathan (2014): Aleksey Pavlov, Aleksey Serebryakov

Come si è già detto dunque, se il tema centrale rimane quello della titanica lotta del singolo contro torti, vessazioni e ingiustizie, anche questa storia che si ispira a un fatto di cronaca realmente accaduto, è fortemente segnata dal paradigmatico disincanto pessimista di una visione quasi apocalittica che praticamente contraddistingue l’intera produzione artistica del regista che, come già aveva fatto nelle sue precedenti opere arrivate dalle nostre parti (il già citato Il ritorno e il successivo Elena, probabilmente ad oggi il suo capolavoro) non omette nemmeno questa volta di tratteggiare sottolineandole con forte accanimento, le conseguenze devastanti originate dalla necessità riappropriativa delle proprie origini che caratterizza tutti i personaggi delle sue storie. Ed è proprio l’universalità della vicenda che gli offre il destro per osservare attraverso il suo personale, inimitabile occhio, le follie e i tranelli di un mondo sicuramente “violento” per definizione, ma lasciando volutamente fuori scena omicidi e vendette che pure vengono consumate: una davvero intelligente “sottrazione sistematica” che ce le fa percepire indubbiamente in maniera più mediata e meno grandguignolesca, ma che diventa anche una maniera preziosa e pertinente, capace di far assumere a questi avvenimenti una dimensione e un senso molto più inquietante.

Davvero straordinaria infatti la feroce e lucida introspezione con cui procede nella sua indagine atta a marcare i confini di questi sinistri conflitti determinati da passioni e pulsioni istintuali che Zvyagintsev lascia implodere (anche con veemenza) ma ai quali non consente mai di deflagrare del tutto, alfine di evitare la pericolosità indotta di una possibile catarsi liberatoria per lui davvero impossibile da individuare in questa sconfortante deriva dell’elemento umano schiacciato dal potere e dalla corruzione.

Il suo è alla fine dunque anche un cinema profondo ed importante, complesso e ambizioso, che rifugge dalle facili allegorie di una lettura politica tout court e privilegia invece un’analisi più sfaccettata che gli consente – ricorrendo ai meccanismi “aggiornati” messi a disposizione dalla parabola biblica, ma tenendo in buona parte conto anche di  Hobbes[1] (“La condizione dell’uomo è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro”) col quale personalmente mi sembra di ravvisare più di un riferimento – di interpretare magistralmente il presente. Qui infatti, esattamente come faceva la spaventosa creatura dell’Antico Testamento, è la forza dei potenti che avvinghia e sottomette la gente a quel Leviatano simbolico che diventa la feroce rappresentazione di quello Stato preconizzato appunto da Hobbes per il quale l’uomo, in nome di una pacifica stabilità sociale, non solo delega, ma baratta e rinnega spesso persino la propria libertà.

 

locandina

Leviathan (2014): locandina

 

Per finire, pochi accenni alla trama, semplicemente per dire che il protagonista della storia è Kolia, un meccanico che vive a Barents, piccola città vicina al mare, in compagnia della giovane moglie e del figlioletto nato da un suo precedente matrimonio.

Sul piccolo appezzamento di terreno, sul garage e la casa che possiede, mette però gli occhi il corrotto e prepotente sindaco della cittadina (Vadim Sergevich) che cerca di impadronirsene al fine di poter poi gestire in proprio una redditizia speculazione edilizia strettamente connessa alla sua funzione di primo cittadino della comunità che gli permette di legiferare a suo piacimento.

Kolia però che non sopporta proprio l’idea di perdere tutto ciò che possiede, non solo la terra e le sue radici, ma anche la bellezza del paesaggio che lo circonda, non intende cedere al sopruso di quel bieco politico di turno.

Decide allora di rivolgersi a un vecchio amico avvocato a Mosca, per tutelare i propri diritti e ottenere giustizia. Si apre così di conseguenza, un duro contenzioso anche legale  e un conflitto che rende il sindaco sempre più prepotente ed aggressivo.

Come si può ben dedurre da queste brevi note, la ribellione di Kolia non ha nulla di eroico: lancia semplicemente una sfida come individuo (ed è proprio questo a renderla importante) che intende difendere fino in fondo se stesso e il proprio bene, non solo materiale, ma inteso anche come possesso di una dignità e di una specifica identità da preservare. La contrapposizione sempre più feroce e l’invadenza delle leggi dello stato, aprirà però la strada al dramma, come facile immaginare…

Elena Lyadova

Leviathan (2014): Elena Lyadova

 

Conclusioni

 

Registicamente parlando, Zvyagintsev orchestra un’efficace e tragica sinfonia in crescendo regalando allo spettatore un cupo ma coinvolgente ritratto di un mondo decadente in lenta ma progressiva decomposizione, scevro di speranza, indifferente e distratto, tradito dalla solitudine e dagli inganni del destino, sommerso dai relitti non solo architettonici che sembrano davvero provenire da un’epoca lontana (case sventrate, impalcature squarciate di vecchie imbarcazioni), ma anche di esseri viventi come quel gigantesco scheletro di balena arenato sulla spiaggia che ben simboleggia con la sua prepotente forza “visionaria” quell’antico mostro Leviatano richiamato con prepotenza fin dal titolo.

Le chiavi di lettura sono molteplici: oltre a quello che ho già detto, io ci ravviso anche una potente denuncia dello sviluppo post- comunista (per più di un verso “regressivo” per lo meno in termini di “diritto”) di una Russia oligarchica che già in questo senso era decisamente malmessa anche prima (suggerito per esempio dalla presenza ben evidenziata dalle riprese, della foto di Putin sul muro dell’ufficio del sindaco nel momento in cui quest’ultimo decide di passare al definitivo contrattacco) oltre a una critica altrettanto pesante al degrado morale dell’oggi che si configura anche nella perdita di ideali condivisi e al ricorso a un’evasione “compensativa” che aggrava e non risolve (la bottiglia di Vodka presente in tutte le sequenze in cui si parla di una certa “criticità” del sistema, la coazione a ripetere dell’uso della sigaretta: due singolari elementi che ci fanno percepire un mondo in cui i fulcri centrali della socializzazione sono rimasti soltanto quelli dell’alcol e del fumo). Non ultima poi, la denuncia di una galoppante infiltrazione massiva (ed espansiva) anche in un realtà di estrema povertà come questa di cui si occupa la pellicola, dei tentacoli attrattivi di un capitalismo interessato solo al business economico da consolidare ad ogni costo (pur nelle loro miserrime condizioni di dropout in pectore, tutti sfoggiano infatti il possesso e l’utilizzo di cellulari anche abbastanza costosi) ed è indubbiamente proprio questo  un altro degli aspetti da tenere ben presente durante la visione.

Ottima infine anche la fotografia  e la forza espositiva degli appropriati interpreti.

Ben giustificati dunque  i riconoscimenti (e le nomination) che la pellicola si è assicurata a partire da Cannes (peccato solo che il film qui in Italia sia stato quasi del tutto ignorato dal pubblico e che anche una buona parte della critica nostrana lo abbia accolto più tiepidamente di quanto meritasse).

Ormai purtroppo siamo abituati a questi “soprusi” e credo che  (anche se a malincuore) dobbiamo incominciare a farcene una ragione.

Sergey Pokhodaev

Leviathan (2014): Sergey Pokhodaev

 

[1] Thomas Hobbes (1588-1679) è stato un filosofo e un matematico inglese che oltre della teoria politica, si interessò anche di storia, etica, geometria ed economia e che, prendendo spunto dall’indagine meccanicistica e matematico-geometrica dei suoi contemporanei René Descartes, Galileo Galilei (che incontrò anche personalmente) e Francesco Bacone, fondò il suo pensiero filosofico su basi rigorose e razionali come quelle delle discipline scientifiche, che lo porterà a definire la natura umana viziata da competitività ed egoismo (“ogni uomo è lupo per l’altro uomo”), definizioneche troverà poi riscontro operativo (ed oggettivo) nel campo dell’antropologia politica. Il suo capolavoro è proprio “Leviatano” scritto nel 1651, dove (semplificando) lo Stato è visto come un grande uomo artificiale o come un mostro spietato (il Leviatano appunto) composto però solo da uomini e dalla loro storia.

 

Aleksey Serebryakov

Leviathan (2014): Aleksey Serebryakov

 

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