Regia di Andrej Zvyagintsev vedi scheda film
Atteso al varco dopo il folgorante esordio con Il ritorno (2003), al quarto lungometraggio Zvyagintsev cerca se non di dare una svolta al proprio cinema, almeno di allontanarsi credibilmente dai rilievi che gli furono mossi dopo essersi aggiudicato il Leone d’oro veneziano di quell’edizione. Si parlava di estetica ridondante e di un contenuto troppo indefinito. Se per il primo elemento si può affermare che in Leviathan non si ricada nello stesso eccesso formale, è sul piano sostanziale che qualche dubbio affiora arrivando a fare i conti con veri e propri inciampi dovuti ad una storia abbastanza articolata che richiederebbe una gestione più solida. Personaggi degni delle novelle di Cechov o delle disgrazie dostoevskijane che incarnano perfettamente quel carattere russo tendente all’inevitabilità del destino, alla resa rassegnata di fronte all’incomprensibilità. Paradossalmente manca forse un po’ l’oggetto della disputa dell’intera storia, l’ambiente, la sua consistenza radicata nella vita dei protagonisti, mentre emerge la solitudine esistenziale dei soggetti, deboli, impoveriti dalla loro stessa condizione fragile. Il film amalgama diverse tracce narrative che nonostante si reggano in piedi perché circostanziate e descritte a dovere, denunciano in alcuni punti dei vuoti riguardanti i protagonisti che tolgono compattezza e omogeneità alla narrazione, che potrebbe essere corredata più che mai dalla classica dicitura “tratto da una storia vera”. Kolia, un meccanico vedovo con figlio e nuova mogliettina giovane e bella, è vessato dai potenti locali che vogliono espropriargli la casa per poter speculare liberamente su quel lembo di terra. Non essendo un tipo del tutto cristallino, l’uomo si avvale dell’aiuto di un vecchio amico, un avvocato proveniente dalla capitale, inevitabili le complicazioni. Se nel precedente "Il ritorno" il regista poteva lasciare aperta una sceneggiatura che poteva permettersi di non spiegare troppo perché fra elementi simbolici e personaggi protagonisti si instaurava un’interazione nella quale una parte completava l’altra muovendosi su di un asse narrativo comunque definito, in Leviathan le diverse tracce, che almeno a grandi linee possiamo identificare in quella guida del rapporto di forza del singolo contro il potere, la relazione dell’uomo con la sua donna, il rapporto di quest’ultima con l’amico, il legame padre figlio, le relazioni ambientali, costituiscono un corpo abbastanza magmatico ma anche non trascurabile se messo in evidenza. Gioco forza che per la lunghezza del film, che già supera le due ore, quando si rileva qualche collegamento mancante e venendo trascinati da subito all’interno della storia, lo spettatore si trova enigmaticamente a scegliere quale direzione può prendere il racconto e chiedersi a cosa si trovi di fronte, storia d’amore, denuncia sociale, dramma familiare. Il disorientamento dello spettatore si riflette nella frustrazione di Kolia al quale peraltro si attribuisce un attestato di solidarietà umana quasi d’obbligo, mentre quel contorno di personaggi complementari, il giudice, la polizia, il sacerdote, l’odioso sindaco, rimarranno indefiniti comprimari come a sottolineare più una lotta dell’uomo contro i suoi demoni interni che verso veri e propri oppressori. Il troppo alcool a cui si ricorre in ogni sequenza sembra svilire ulteriormente memoria, passato, il vissuto presente personale, la dignità, senza offrire non solo una possibile via d’uscita ma anche la negazione della propria condizione in preda al disfacimento morale e materiale.
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