Regia di Alix Delaporte vedi scheda film
L'infanzia è una speranza che spesso soffre per eccessiva amarezza, per la sfiducia degli adulti, quella che essi erroneamente scambiano per una conquista dell'esperienza, per un sano e maturo disincanto. Il piccolo Victor prova a scalfire quel muro. Facendo vibrare, in sottofondo, le naturali insicurezze dei suoi tredici anni.
Cosa sia, quell’ultimo colpo di martello, forse è meglio non dirlo. Forse è preferibile non svelare da dove nasca l’idea che la fine, così detta a parole, può non esserlo nei fatti. Che può essere lei, in conclusione, la grande assente, quella che si chiama fuori, e per una volta si mette da parte, in attesa degli eventi. L’incompiutezza è una promessa per il futuro. È una prospettiva che si apre tramite l’attesa, la mancanza, la sospensione. Tramite un’inversione di marcia che sembra vietata dalla logica e dalla successione temporale, e invece si può imporre, in extremis, con un irrazionale atto creativo, eseguito un po’ a caso, come suggerisce l’istinto, senza troppa coscienza. Un gesto tipicamente infantile, proprio di un bambino inquieto che si affaccia all’adolescenza, che vive un’esistenza a metà, ma, ad un certo punto, decide da che parte stare. La sua condizione è metaforicamente sospesa tra due termini che stentano ad andare d’accordo: una casa ottenuta unendo una roulotte e una baracca, una famiglia di vicini provenienti dall’altra parte del mondo, una madre povera e malata che non si cura, un padre ricco e famoso che è solo un estraneo. Victor, dal campo incolto, confinante col mare, in cui abita, si guarda intorno e aspetta. Il suo gioco preferito è la pazienza, quella che usa per insegnare il francese all’amichetto straniero che non ne vuole sapere, per convincere un uomo sconosciuto ad aiutarlo, per far sì che una donna giovane e bella non scappi, la smetta di rinunciare a sé e all’amore che prova per lui. Il film di Alix Delaporte ha il ritmo di un lunghissimo sospiro, trattenuto per dare all’angoscia il modo di definirsi per bene, di riempire, con il suo soffio sommesso, tutti gli spiragli rimasti socchiusi, tutte le minuscole incrinature dell’inevitabilità. Soltanto così l’incertezza può prendere una forma umana, aderente alle contorte ramificazioni della realtà individuale, in cui ciascuno ha mille luoghi verso cui protendere i propri desideri, i propri timori, i propri rifiuti di capire. Victor ha il coraggio di esplorare ogni angolo di quel labirinto, anche quando si tratta di sostare in anticamera, di nascondersi dietro le quinte di un teatro, di intrufolarsi non visto in un posto proibito. E anche quando è costretto a rimanere in silenzio, ad ascoltare la musica altrui. O a parlare, senza essere compreso. Le barriere si sfondano per contrappasso. Attraverso un’intrusione discreta, tale da allargare, pian piano, le rugginose maglie dell’inerzia. Una cauta determinazione è una lentezza che va a segno procedendo a tastoni. Victor ci prova, in mezzo a quel suo piccolo universo instabile e diroccato, tappezzato di incertezze, ma, a ben vedere, striato di tenerezza e fragilità. Le stesse che si possono cogliere nelle pieghe di una sinfonia, tra le sfumature di un accordo, sfiorando un’armonia del passato che segna il confine con lo straziante vuoto del domani.
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