Regia di Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Theis vedi scheda film
"When I was three, I thought the world revolved around me. I was wrong and so I sing along. And if you dance, then dance with me" (Party Girl - U2)
Angelique è la rappresentazione senza filtri della resistenza del passato, l’estrinsecazione umana della favola della rana e dello scorpione, la prova incontrovertibile che i tentativi di raggiungere la felicità se ne infischiano del libero arbitrio e seguono, senza capricci ma con determinazione, una forza oscura che potremmo chiamare destino (ovvero l’impilarsi delle cose secondo una consequenzialità che non necessariamente si è potuto scegliere).
Angelique è una Party Girl scavata in volto dai segni di una vita che non consente vie di fuga, incasellata in rituali di orgiastica finzione di allegria, affannosamente protesa allo sguardo in avanti, eppure sempre con una visione camaleontica del mondo: ciò che siamo stati ci condizionerà, a dispetto degli altri e dei loro tentativi di cambiarci, e senza rispetto per la nostra stessa volontà, che ci si è magari autoimposti come esercizio spirituale di adesione alla nuova immagine che il fluire degli avvenimenti rimanda di noi.
Curioso ibrido di fiction perfettamente piantata nel reale, Party Girl è la storia (poco) romanzata di Angelique Litzenburger, accompagnatrice di night, seguita, con telecamera efficace, rispettosa ma anche impietosa (ci sono diversi primi piani che ne scavano il volto che da bello si è fatto segnato e che riescono un po’ affannosamente a rendere il senso del tempo che passa e rimescola certezze e abitudini), nella ricerca destinata al fallimento di un cambiamento di vita tale da contemplare l’accoglimento di un amore puro: quello di un vecchio cliente gentile, innamorato, servizievole, eppure vittima sacrificale della incapacità di seminare adrenalina in quella vita che di adrenalina e lustrini si è sempre cibata.
Il tono sostanzialmente documentaristico del film (i personaggi sono pressochè tutti reali, i figli di Angelique sono quelli veri, l’ambiente del night, sospeso tra volontà sordide e teneri adeguamenti al ruolo, è ripreso con palese onestà intellettuale) è il punto di forza ma anche di debolezza di Party Girl, laddove le esigenze di rappresentazione della realtà hanno il sopravvento sulle capacità di fascinazione che ogni prodotto di fiction deve comunque porsi come obiettivo. Ne risulta che la presenza perenne in scena della donna, ed il suo dimenarsi lungo i fallaci tentativi di rinnovamento, non riescono tuttavia a superare l’impasse di una freddezza di fondo che non coinvolge lo spettatore, lasciandolo sospeso tra (non troppo semplice) immedesimazione e conati di visione entomologica di uno strano animale da balera.
Resta il coraggio di chi ha saputo mettere in scena la propria vita, con tutte le toppe e le lacerazioni di un passato che reclama il proprio conto, la sincerità nella rappresentazione di dinamiche familiari coartate da una lontananza fisica e psichica e tuttavia cementate dalle inesprimibili ragioni del sangue, gli sguardi di Angelique e del suo promesso sposo, che si rincorrono inutilmente e che sono proiettati alla ricerca di un orizzonte o di un lido che entrambi sanno lontanissimi. Ed un messaggio non banale che, un po’ faticosamente, passa: la vita è fatta di cose che succedono (o che cerchiamo di far succedere) compresse tra gli innumerevoli tentativi di felicità.
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