Regia di John Maclean vedi scheda film
Tra i film western che hanno visto la luce nei primi quindici anni del XXI secolo, Slow West è quello che più di tutti rappresenta questa nuova e felice tendenza al rinnovo del genere. Quello a cui stiamo assistendo oggi, a tre lustri dall’attacco alle torri gemelle, a diversi decenni ormai dalla fine del periodo d’oro dei generi hollywoodiani, a due mandati dal primo presidente americano di colore e via dicendo, è la nascita puntuale e fisiologica di un neowestern che del genere originario preserva la modulazione narrativa, i topoi caratteristici e l’iconografia identificativa, mentre del genere moderno, ovvero lo spaghetti-western, il western revisionista o crepuscolare del periodo autunnale del genere, conserva lo spirito ribelle, la lettura simbolica e politica, il valore paradigmatico, metaforico e universale della sua peculiare mitopoiesi, e in ultimo, conserva le bizzarrie tipiche delle decostruzioni, delle allegorie, delle parodie, delle carnevalizzazioni e delle ibridazioni linguistiche e stilistiche del western all’italiana: dall’epica di Leone all’iperrealismo di Corbucci, dal gotico di Margheriti allo pseudo-steampunk gadgettistico di Parolini.
Lo scozzese John Maclean debutta al cinema portando nel lontano ovest ricreato in Nuova Zelanda un giovanissimo scozzese alla ricerca del suo grande amore. Viaggio, conflitto europeo/americano, ovvero cultura/natura, amicizia virile, classico rapporto puer/senex e tanti altri temi tipici della narrazione western si trovano perfettamente amalgamati tra loro in questo silenzioso gioiello di genere. Il regista preferisce un approccio esteticamente ricercato, grazie alla fotografia “parlante” di Robbie Ryan, e alla messa in scena quasi teatrale, dotando l’elemento wilderness di una sua straniante domesticità, trasformandolo nel palcoscenico ideale di questo western da camera, che da camera non è, dato che nella sua quasi totalità si sviluppa nell’elemento naturale selvaggio. È il codice espressivo che lo declina in una concrezione al tempo stesso materica e filosofica, fatta di allegorie ed esistenzialismi tanto quanto di sangue e frattaglie, polvere e sudore.
Emblematico, per esempio, all’inizio del film, oltre alla voce fuori campo non del protagonista europeo, ma del compagno americano – confronto tra il romanticismo dell’innocente vecchio mondo e il capitalismo bulimico del nuovo mondo – anche il passaggio del giovane Kody Smit-Mcphee attraverso le ceneri del campo indiano. Un passaggio simbolico, quasi fosse la tana del bianconiglio, o meglio ancora le rive dantesche dello Stige, che richiama la ritualità cristiana del mercoledì delle ceneri, segnando l’entrata in un periodo di afflizione e penitenza, quello quaresimale, di astinenza dalle “carni”. Passaggio oltre il quale l’adolescente si trova prima a faccia a faccia con un selvaggio indiano, più ferale e animalesco delle donne incontrate precedentemente; poi, con un laido ufficiale nordista; e infine con il cacciatore di taglie che lo accompagnerà, novello Virgilio, nelle terre desolate e violente dell’America – un Michael Fassbender più che azzeccato, con il ghigno lancasteriano perfetto per un western.
Nonostante la ricerca autoriale, Maclean non si dimentica le lezioni precedenti e sa adottare uno sguardo nuovo, neo, per indagare il genere classico, western. Il minimalismo della messa in scena e delle inquadrature, che privilegiano la pulizia del campo e il rigore delle composizioni, fa coppia con una feroce estetica splatter, benché non esagerata né impregnante come quella dei western di Tarantino, ma ugualmente spiazzante e incisiva. Conferma che, ancora una volta, è il linguaggio e la sua facoltà articolatrice di temi e motivi noti, a fare la differenza e a conferire al western il potere di essere attuale quanto universale. Sempre.
Il film è anche un ulteriore esempio di euro-western degli anni zero: produzione europea, cast americano o internazionale, location avanguardistiche come in questo caso quelle neozelandesi, e ovviamente un impianto concettuale sofisticato, esistenzialista, politico o sociale come il miglior western di barricata dei ’70, con un ovvio cambio linguistico ed estetico. Slow West è quindi, grazie alle sue peculiari caratteristiche e il successo goduto da critica e pubblico, il manifesto di questo ben arrivato neowestern che, tolti gli abiti stretti e goffi dell’aderenza storica e delle vicende esemplar-nazionalistiche in voga dopo l’11 settembre, si riappropria delle sue fondamenta letterarie e della sua universalità tematica e linguistica, sconfinando nel realismo magico, nel dramma minimalista, in quello da camera, fino all’horror o alla commedia; sempre nel segno di una evoluzione del genere atta a potenziare il valore mitopoietico del genere stesso come anticorpo alle derive fantasy e young adult.
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