Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film
Un nuovo sogno thailandese. Una magica favola interiore, che ha la forza irresistibile di una seducente allusione ulltraterrena.
Ma che cos’è quella strana luce. È magia tecnologica che viene dal mistero. Dalla dimensione placida dei sogni, che nasconde una verità crittografata. Il buio è invisibilità che apre le porte verso regni inaccessibili, tesori del passato, visioni del futuro. Il presente, al confronto, è un ipnotico nonsenso. Una banalità che anestetizza. Una ripetizione che atrofizza lo stupore. Forse, davvero, bisogna essere soldati per combatterla. Per sfidare la sua inutile evidenza con un sonno che si oppone alla sua logica, al diktat della presenza ad ogni costo, dell’attività che stordisce e livella la moltitudine degli esseri. Nei locali di una ex scuola ci sono uomini che dormono. Giacciono immobili e silenziosi, allineati sui letti di una improvvisata corsia, assistiti da donne volontarie, che forse sono un po’ fate, diverse anche loro, con poteri fuori dal comune. Ogni tanto si svegliano al mondo, per poi, all’improvviso, ricadere nella loro oscurità, nella loro assenza di pensiero vigile, che, però, è pienezza di coscienza. Dietro le palpebre abbassate, i loro sguardi si estendono verso l’infinito, dove la bellezza è ancora quella autentica delle favole antiche, così aristocraticamente lontana dalle moderne illusioni del mercato globale, futilmente omologanti, squallidamente vistose come insegne al neon che reclamizzino il degrado. C’è un’altra iridescenza che nasce da dentro: che non segue le psichedeliche frenesie della vita comune, perché descrive i suoi lenti vortici negli ignoti circuiti dell’anima, dove l’assurdo è una meravigliosa utopia, che supera il tempo e vince la morte. Apichatpong Weerasethakul, amante dei corpi e delle parole danzanti, questa volta fa parlare presenze mute e inerti, attraverso la compenetrazione tra lo spazio reale – devastato dall’oblio – e quello immaginario, spalancato su un paesaggio sterminato, dalle perfette trasparenze, mai offuscato dalla polvere, mai invaso dallo straniamento, eternamente vicino e familiare. Le distanze scompaiono, e succede adesso, in mezzo ad un esercito colpito dalla narcolessia: un piccolo popolo dalle infinite rinascite, evaso dalle guerre della normalità, per abbracciare segretamente la sconfinata pace della fantasia, dell’altrove, dove tutto è magnificamente irraggiungibile. Il finto splendore dell’oggi è solo un belletto sbiadito: è il provvisorio sfolgorio di una statua truccata, che è solo la brutta copia di una principessa del cielo. È il fasto di un santuario dai mille colori, dove il vero gioiello è un canzone d’amore cantata, in disparte, da una ragazza scalza. Il cuore palpita di una sommessa nostalgia del nulla, e il suo battito è come il brivido di una carezza che sfiora la pelle. L’attesa del ritorno non fu mai così dolce, mai così nobilmente composta nella certezza della rivelazione. Il volgare ticchettio delle ore del mondo non turba la sua quiete; il suo ordine pieno di regole e privo di ragione è solo un innocuo siparietto, una transitoria parentesi di caos. Basta distogliere gli occhi, per non lasciarsi imbambolare dalla sua nebbiosa smania di distrazione, di gioia fittizia, di abbandono che non ristora. In questa storia le immagini sono tutte ferme: alcune si muovono di falsa vita, altre riposano in un’energia che sale dal profondo, che non ne increspa la sottile superficie, perché ne riempie le vastità interiori. E procura una sensazione calda e delicatissima, che si stende sul racconto con uniforme morbidezza: la scia di un profumo di fiori appena sbocciati, sull’erboso tappeto di un amore intenso e discreto come un sussurro.
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