Regia di Rupert Goold vedi scheda film
L'esordio americano dell'inglese R.Goold è un prodotto di genere che presta il fianco allo schematismo narrativo di una storia che alterna scialba tenzone psicologica e legal-drama,alle lacune logiche di una sceneggiatura che alimenta sospetti pretestuosi e ad un montaggio che mortifica l'azione riducendola ad una mera rassegna da sitcom carceraria
Che cosa hanno in comune un astro nascente del New York Times appena messo alla porta per un reportage farlocco ed un ex piazzista sotto processo per aver sterminato la propria famiglia? Niente, a parte che il secondo si spacciava per il primo durante la latitanza ed il secondo vorrebbe approfittare della storia dell'altro per rilanciare una carriera stroncata sul nascere. Le bugie però, si sa, hanno le gambe corte.
Il thriller giornalistico che incrocia le strade di reporter prestati alla sezione omicidi e killer seriali abili nell'arte di (vincere?) manipolare la morbosa attenzione dei media per le loro malefatte, si arricchisce di un nuvo capitolo con questa storia vera (ma lo era anche Zodiac?) scritta dall'esordiente Rupert Goold con la consulenza dell'originale Michael Finkel, e sotto la supervisione produttiva di un Brad Pitt che dimostra di credere nelle doti analitiche del secchione sovrappeso e occhialuto di Jonah Hill (L'arte di vincere). Il risultato è una storia che vorrebbe squadernare le contorte psicologie di due mentitori professionisti, trovando la quadra di un prodotto credibile da propinare al grande pubblico (scritto a quattro mani!) che salvi le chiappe del narcisista patologico di un sornione James Franco e restituisca la verginità professionale al suo mendace confessore. Se l'assunto di base farebbe pensare al rovesciamento romanzesco del meccanismo manipolatorio che costò non poche (e ingenerose) critiche di sciacallaggio letterario al padre della non-fiction novel (In Cold Blood), l'esordio americano dell'allitterante regista inglese Rupert Goold è un prodotto di genere che presta facilmente il fianco allo schematismo narrativo di una storia che alterna scialba tenzone psicologica e legal drama, alle lacune logiche di una sceneggiatura che alimenta sospetti pretestuosi (il killer è un bravo ragazzo o uno spietato uxoricida? il giornalista è un gonzo credulone o uno sgamato approfittatore? la moglie del giornalista che c'azzecca?), ad un montaggio che mortifica l'azione riducendola ad una mera rassegna di situazioni da sit-com carceraria. Piccolo guizzo nel finale dove l'allure da bello e dannato del seduttore galeotto viene mortificato dallo sprezzante exemplum seicentesco del delitto di Palazzo San Severo da parte una colta bibliofila col pallino della musica sacra e che non se lo fila per niente. Presentato al Sundance Film Festival 2015, sembra essere passato (giustamente) inosservato.
That’s the story of my life
That’s the difference between wrong and right...
both those words are dead
That’s the story of my life
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