Regia di Kevin Smith vedi scheda film
Un body horror sui generis che partendo da un’impostazione narrativa fiabesca – un ragazzo, un bosco, una vecchia casa isolata, l’ospite ambiguo, strane storie e dettagli premonitori – arriva agli assunti cronemberghiani sulla nuova carne. Dai Grimm a Cronemberg il passaggio non è poi così difficile. La fiaba è la protoforma del body horror se vogliamo, e Tusk, nonostante le sue bizzarrie linguistiche e un’estetica manierista ma efficace, ne rappresenta un degno epigono.
Inoltre, la presenza luciferina di Michael Parks, geniale interprete mefistofelico dallo sguardo di ghiaccio prematuramente scomparso, è un valore aggiunto di inestimabile valore. La sfida ad armi impari che ingaggia con un felicemente ritrovato Justin Long, che dai tempi di Jeepers Creepers (Victor Salva, 2001) non era più tornato al “genere” per dedicarsi invece e purtroppo a commedie demenziali di dubbio umorismo, è una sfida tutta fisica e non psicologica. Non c’è manipolazione o plagio, non c’è insinuazione e tormento psicologico. La sfida è, innanzitutto, impari perché il folle personaggio di Parks conduce il gioco fin dall’inizio e Justin Long, la giovane vittima, non può nulla contro il piano già architettato dal suo ospite. In secondo luogo, proprio perché è già tutto deciso, tutto è già stato previsto e il povero malcapitato è solo un predestinato, non c’è bisogno di ricorrere a strategie psicologiche per annientarlo. Tutto è quindi fisico. Dal primo incontro, dove Parks, un vecchietto consumato e costretto su un sedia a rotelle, studia morbosamente l’aitante belloccio arrivista di quarant’anni pregustando la realizzazione del suo sogno “carnale” e mostruoso, o meglio, “mostruosamente carnale”, fino al finale catartico che suggerisce la rappresentazione della morte come una copula tanto agognata. Nel mezzo, le operazioni disumane dello scienziato pazzo qual è il personaggio di Parks, l’assemblaggio osceno del povero corpo martoriato della giovane vittima e l’addestramento costrittivo del neonato tricheco umano.
In ultimo, bisogna pensare al tratteggio del personaggio interpretato da Justin Long, ovvero un arrivista podcaster di ultima generazione, tanto pieno di sé da utilizzare la tragedia di un povero nerd come scoop sensazionalistico per la propria carriera; tanto pieno di sé da tradire regolarmente la propria ragazza che lo ama più di ogni altra cosa e che gli perdona sempre le sue scappatelle; tanto pieno di sé da intendere il rapporto uomo-donna solo come uno sfogo sessuale; ovvero, un personaggio che narcisisticamente è solo il suo corpo, è solo il suo membro sessuale intorno a cui ruota tutta la sua boria – e il riferimento all’osso penico, il baculum dei mammiferi placentati, non è casuale nonostante sia strettamente correlato alla figura del tricheco, invitato di pietra animalesco e deus ex machina di questa bizzarra favola nera. Essendo tutto questo, il personaggio di Justin Long non poteva che finire i suoi giorni come follemente immaginato da Kevin Smith, il cui cinema anarchico trova una nuova forma espressiva nel genere horror grazie a cui assistiamo per la prima volta all’annientamento di uno dei “nuovi mostri” sociali del nuovo secolo: youtubers, gamers, influencers, podcaster, marchette social per intenderci.
Un’opera quindi in cui non solo il regista sfoggia il proprio black humor adattandolo ad un nuovo linguaggio, ma in cui riecheggiano i Grimm e Cronemberg, il prometeo moderno di Frankenstein, lo spettro di Zygmunt Bauman e un piccolo racconto a fumetti della collezione di Zio Tibia, Il trapianto, scritto da E. Nelson Bridwell e disegnato da Ric Estrada (Creepy, 1970). Presente una certa verbosità stravagante che arricchisce il testo e crea un’atmosfera straniante proprio grazie alla divertente e riuscita insostenibilità dell’arte oratoria del folle personaggio di Michael Parks. Assente però, una necessaria audacia sessuale, dato il tema corporale, che avrebbe impreziosito la pellicola.
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