Regia di Andrej Tarkovskij vedi scheda film
Solaris e Stalker costituiscono un binomio indissolubile nel cinema di Andrej Tarkovskij. Entrambi trattano di viaggi, di peregrinazioni dai tratti fortemente filosofici, sono pregni di riflessioni e di conclusioni formali spesso straordinarie e di straordinaria importanza per la storia del Cinema tutto. Sono vagabondaggi dell’anima, in cui è facile perdersi e ritrovarsi nel Caos, che si accumula in un tempo dilatato, in uno spazio infinito e indefinito (la Zona, l’Oceano Solaris), nell’inesauribile insieme di espressioni e di frasi che i protagonisti pronunciano consci del loro smarrimento. Com’è ancora più ovvio in Stalker, gli esseri umani anelano verso una meta che spesso si palesa nei loro stessi pensieri e nei loro ricordi, terreni (in)contaminati e distanti, irraggiungibili. Il fuori diventa il dentro, in linea con le conclusioni più estreme del moderno cinema mondiale negli anni Settanta, le invenzioni formali all’avanguardia sul rapporto fra interiorità ed esteriorità, quelle che Tarkovskij estremizza a livelli mastodontici in questi due suoi incredibili capolavori.
L’Oceano Solaris permette a coloro che vi si avvicinano di vedere materializzati (in neutrini, e non in atomi, così come dice uno degli scienziati protagonisti) gli esseri umani del proprio passato, coloro che sono morti, rimasti indelebili nei cassetti della memoria. Allo psicologo Kris riappare la moglie, morta tempo prima suicida perché convinta, forse, che lui non l’amasse più. La donna che appare però ha solo le sembianze della donna morta, possiede in realtà una coscienza del tutto differente, curiosa e dubbiosa come quella di qualunque essere umano, ma non propria della donna che Kris aveva amato (e forse smesso di amare). A fianco delle terribili conclusioni tratte dalle possibilità che simili esperienze psicologiche offrono, si aggiunge pure il dilemma dell’identità, e per estensione il problema del senso della vita.
Ma Tarkovskij non generalizza. In un certo senso si mantiene equidistante da tutto ciò che viene messo in scena, lascia intendere una freddezza e un’imparzialità che rendono Solaris un flusso ininterrotto di sensazioni e di emozioni, tanto più potente quanto più paziente nell’inquadrare le situazioni e contemplare la crescente disperazioni dei personaggi. Davanti alla sua mdp finiscono paesaggi, grandangoli con presenze umane, disposizioni quasi teatrali di ambienti e personaggi, primi piani, dettagli di gesti e di azioni, oggetti, sia vicini che lontani. Simile polimorfismo visuale concorre a creare un senso di crescente straniamento e disturbo durante l’intera visione. Con la sensibilità pittorica già propria di Andrej Rublev Tarkovskij trasforma alcune sue sequenze addirittura in tableaux vivants, in pitture ad olio, in nature morte, benché “vivissime” sotto il suo sguardo dinamico e attento, “iperscrutante”, quasi analitico nel suo incedere poetico/trasognato/rigoroso. Come tutte le cose belle e particolari, Solaris è impossibile da raccontare, (così come l’amore, di cui “si può solo descrivere il concetto”), ma si può certo descrivere in che modo il film raggiunge questa “impossibilità”, ovvero questo magnetico fascino con cui riesce a catturare l’attenzione dello spettatore paziente e a trasportarlo nei meandri astrali di un capolavoro.
Il montaggio e il suono sono le armi principali di Tarkovskij in Solaris. Prima si fa fatica ad accorgersene, e risulta ancor meno evidente nell’edizione italiana sforbiciata dei primi fondamentali quaranta minuti che si svolgono sulla Terra e permettono (solo apparentemente) di inquadrare la situazione e il protagonista. In realtà anche questa prima fetta di pellicola appare profondamente enigmatica e quasi insondabile. Mentre viene introdotto il racconto su Solaris, misterioso Oceano nello Spazio, attorno al quale orbita una stazione spaziale che Kris dovrà raggiungere, Tarkovskij presenta e introduce dal canto suo una ben precisa dichiarazione di stile. Il regista russo segue con lo sguardo i personaggi, che si muovono con vettori ben precisi ed evidenti, entrando e uscendo da una casa, percorrendo la costa di un fiume, sedendosi o alzandosi da un divano. Il carattere labirintico e cortocircuitale del prosieguo è annunciato da una misteriosa alternanza di b/n e colore, la quale si protrarrà per l’intera durata del lungometraggio. Solo quando un astronauta annuncia di aver avvistato un bambino proveniente dalla melma indurita e subacquea presente sotto l’Oceano Solaris, il film comincia a tremolare, il rigore viene meno, tutto diventa squisitamente imperfetto.
L’astronauta si ritrova con un bambino su un auto che prosegue avanti autonoma nel traffico, senza autista. Le strade sono piene di macchine, che ordinatamente ma in notevole quantità scorrono su strade che improvvisamente si intrecciano senza una logica razionale, svanendo l’una nell’altra. L’immagine di Solaris si incrina, viene meno, lascia intravedere l’assurdo, l’irrazionale, cominciando a tralasciare la “normale” visione delle cose per introdurre il mondo dell’uomo protagonista, Kris, che giunge finalmente sulla stazione spaziale mentre fuori si muove e ribolle l’Oceano Solaris non per caso simile al mare su cui Sokurov farà navigare l’Ermitage in Arca russa. Non appena Kris si rende conto che sulla stazione avviene qualcosa di strano, si verifica lo stranissimo evento: appare sua moglie. A quel punto il montaggio, sempre apparentemente freddo e poco partecipe, ha dato il via a una lenta messa in discussione del nostro “vedere”. Avvertiamo concretamente il limite castrante dei confini dell’immagine, poiché ci accorgiamo, prestando la dovuta attenzione, che non tutto ci viene mostrato, e che preso da solo ciò che ci viene mostrato non ha quasi senso, immanentemente. Il suono concorre a questo stesso senso di smarrimento: sebbene sentiamo i passi del protagonista che si muove per la navicella (e li sentiamo solo quando il protagonista stesso è in scena), non sentiamo invece quelli dei personaggi che si muovono intorno alla cinepresa, personaggi che lasciamo in un posto e nell’attimo successivo ritroviamo trasfigurati in un altro. Cominciamo, insomma, a smarrirci anche noi.
Quando poi il montaggio smette di osservare chi parla, ma solo chi ascolta, e capire chi è che pronuncia le parole diviene un problema, ecco che lì siamo nel delirio del protagonista, non a caso uno psicologo, giunto sulla navicella per comprendere la situazione anche psichica dei due scienziati astronauti che si trovano al suo interno. L’apparizione della moglie Hari dà inizio a un vero e proprio dramma sentimentale, straziante tanto di più non appena si capisce che si tratta di una storia d’amore impossibile e “inesistente” fra due individui apparentemente simili ma in realtà di natura inconciliabile. Oltretutto lei è un clone della vecchia donna, risponde esteticamente solo a ciò che lui desidera, ma ella non prova i medesimi sentimenti della donna morta, assume una sua coscienza, diviene sempre più umana, e finisce per intervenire negli scambi e nelle discussioni dei tre uomini.
Se i due scienziati vivono come ostili e puramente scientifiche le apparizioni dei loro cari, Kris si lascia trasportare tanto da impazzire, da dichiarare di non voler tornare mai più sulla Terra pur di rimanere con questa nuova donna di cui si innamora. Inutile dire che anche la donna appare e scompare, prima non c’è e poi c’è, non la si vede e la si trova con un semplice cambio di inquadratura, tanto che senza grossi effetti speciali Tarkovskij ci lascia percepire la di lei evanescenza (che raggiunge la vetta nella splendida scena della lievitazione). E se la situazione di Kris non può far altro che concludersi nello scoppio del delirio, si rende anche evidente la fragilità estrema dell’equilibrio (di tutti i tipi: umano, chimico-fisico, esistenziale). E infatti il finale, che azzera le distanze e (come avviene in altre sequenze dei film di Tarkovskij) trasforma l’enorme in un semplice dettaglio di un qualcosa di ancora più gigante (vedasi il finale di Nostalghia), mette in mostra tutta l’inanità degli sforzi umani per arrivare a una conclusione (per arrivare alla felicità), dimostra la piccolezza dell’uomo e del suo desiderio di conoscenza, distrugge qualsiasi certezza e qualsiasi proporzione.
Il film è dunque un climax, che ha il suo zenit nei ricordi di infanzia di Kris, che lentamente affiorano, sinonimi di un’attività celebrale che mette in moto Solaris e permette ai due scienziati di analizzare il fenomeno (tanto che Kris diventa una sorta di cavia da laboratorio). I ricordi di se stesso piccolo sulla neve si confondono con le immagini di Bruegel e dei Cacciatori nella neve, si alternano ai dettagli del quadro, e pur nella piattezza della materia dipinta sfondano la bidimensionalità e aprono uno squarcio onirico di fattezze indimenticabili. Affiancando quest’accorgimento all’autocitazione segnalata dalla presenza di un poster di un quadro di Andrej Rublev, Tarkovskij si rivela ispiratore primo non solo del suo più grande allievo, Aleksandr Sokurov, ma anche di Lars von Trier.
Un capolavoro, che mette in crisi il normale modo di vedere le cose, rifonda la vista e la visione, si àncora alla memoria dello spettatore senza lasciarlo mai andare, allargando il tempo e trasportando in altri mondi.
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