Regia di Larry Clark vedi scheda film
Qualche applauso in sala per un film nauseante (nel vero senso della parola) e poetico nello stesso momento.
Non è un capolavoro ma un’opera generosa. Era dai tempi dello Zio di Brooklin che non sentivo una tale divisione tra il pubblico: da una parte chi stava al gioco, e dall'altra chi avrebbe voluto essere altrove.
Quanto al film vero e proprio: un'introduzione folgorante ci fa entrare in un ambiente ostile che non ammette estranei, la strada. è lo stesso regista che rotola mentre i ragazzi lo scavalcano con gli skateboards, come fosse un mucchio di stracci. Math, JP, Marie, Pacman e gli altri sono il solito gruppo di stronzetti come possono esserlo gli adolescenti visti da un adulto.
L'antipatia cede quando qualcosa traspare: tristezza, disgusto, piacere, avidità, atarassia sono solo il vetro che ci separa da quello che hanno veramente in mente, quello che non ci diranno mai come non lo direbbero ai genitori, ai professori, a nessun altro.
Qualche monosillabo tra una canzone e l’altra a proposito di soldi e sesso, questo è tutto ciò che ci è dato di conoscere.
Clark indugia sui corpi e sulla durata a volte insostenibile del loro contatto. Forse perché vuole farli parlare perché di quei corpi non resterà nulla, il tempo li muterà in modo inarrestabile.
Raramente il linguaggio cinematografico mi è sembrato così necessario, l’unico che potesse avvicinarsi alla materia. In fin dei conti vicende simili sono già state raccontate, ma stavolta il punto di vista è quello di una macchina da presa assolutamente complice, come un compagno di bravate, libero di decidere se andare in fondo o mollare.
Qualcuno si è alzato ed è uscito dalla sala, io sono rimasto.
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