Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film
Con un sogno in otto quadri Kurosawa ci apre quella parte di sè che è stata la matrice prima della sua arte, e dunque ora a quella dà forma, quasi urgesse ormai, sul finale, dire quanto sia breve la strada, se per tutta la vita continuiamo a dire sempre la stessa cosa.
Kurosawa arriva all’atto finale della sua vita di uomo e di artista. Abbandonata l’epica, esplorate ormai tutte le ragioni del cuore e della mente, dopo aver annullato barriere e confini dimostrando nei fatti, nelle storie, nelle scelte linguistiche, che l’unico colore “è il colore dell’uomo”, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi epoca, con questo sogno in otto quadri ci conduce dentro quella parte di sè che nei sogni prende formai e in essi si completa.
Negli otto sogni si percorre la strada dal bambino al vecchio ma, ci dice il regista “… non è una sorta di Amarcord personale, non intendevo parlare di me, del mio passato in questo film, ma del “sogno” in quanto forma di espressione originale … nel mio film ho cercato di raccogliere la sfida dei sogni che ho visto”.
I sogni sono materia concreta ed evanescente insieme, e forse più che all’amato Dostoevskij ( “i sogni sono i nostri desideri espressi in una forma sorprendente”)stavolta Kurosawa sembra vicino all’altrettanto prediletto Shakespeare (“Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita” )
Ma dentro questa breve vita soffriamo, amiamo, temiamo e dunque sognamo, e nei sogni si raccoglie in simboli quello che l’arte fa diventare più reale del reale.
Il bambino dei primi due sogni attraversa incantamenti e paure che dipingono di colori, fiori e suoni gli scenari di quella natura fiabesca che tanto affascinò Van Gogh: “Non è una religione quella che ci insegnano questi giapponesi che vivono con tanta semplicità nella natura come se fossero essi stessi dei fiori? ” scriveva da Arles al fratello Theo.
Il bambino può credere, nella dimensione mitica dell’infanzia, che le volpi siano dove nasce l’arcobaleno e che i peschi possano rifiorire dove l’uomo ha fatto il deserto, ma l’uomo, ormai adulto, immerso nella tormenta, può perdere troppo facilmente la strada.
Il tempo del terzo sogno è quello dell’incubo, il piombo spinge sul fondo mentre si dissolve nell’aria il velo della sirena incantatrice. Il campo base, la salvezza, è la visione insperata del mattino, ma quanto dolore costa il risveglio? E convivere con i nostri sensi di colpa?
Da quel tunnel del quarto sogno, che ogni volta ci risucchia, escono morti che bisogna esorcizzare per continuare a vivere, rimandandoli indietro, nel loro nulla, mentre il cane ringhioso della coscienza esce ad azzannarci.
Ma la pena del vivere è anche tragedia collettiva, se dal Fuji scende una nuvola nera, rossa, gialla, blu (il colore dei veleni accuratamente elencati dallo scienziato) e non basta un misero giubbottino sventolato disperatamente a diradarla (nei sogni si crede ai miracoli, a volte).
Nel mare gonfio e scintillante oltre lo sperone di roccia c’è una tomba comune di smisurata capienza. Chi sopravvive avrà un insolito destino: una volta recuperata la fisionomia mostruosa delle origini, ritroverà una collocazione di classe e saprà da chi verrà divorato e quando, bisogna solo essere nella categoria sottostante.
Il delirio onirico di questi due sogni, prima di placarsi nell’idillio dell’ultimo, trova una magica pausa nella fantasia vangoghiana del quinto, visionarietà pura, entrare in un quadro e perdervisi.
E’ il momento forse più bello del film (difficile la scelta, però): Scorsese truccato da Van Gogh con l’orecchio bendato che ringhia all’ammiratore, che ha scavalcato i confini dell’immaginario in quel museo pieno di girasoli e campi di lavanda, di non poter perdere tempo con lui, il sole lo costringe a dipingere … e poi dentro di sè troverà il vuoto, mentre uno stormo di corvi neri si alza gracchiando sul campo di grano.
Sul finire del tempo Kurosawa colloca il sogno dei sogni, il mito che l’uomo ha creato prima degli altri, per non convincersi di essere definitivamente infelice: l’età dell’oro.
Una natura primordiale, intatta, un mondo dai ritmi semplici, dove il morire è il normale epilogo del vivere e va festeggiato con canti, colori e maschere.
Mentre scorre festoso il corteo funebre accompagnato dalle note di una suite di Ippolitov Ivanov (Scene caucasiche), il vecchio artigiano ancora al lavoro parla dei suoi 103 anni al giovane passante. Tra poco toccherà a lui, è il ciclo naturale delle cose.
“Sono un uomo fortunato” disse di sè Kurosawa nel ’51, l’anno di Rashomon.
Conosciamo le sue traversìe successive, ma siamo convinti che questa passione di essere al mondo non l’abbia mai abbandonato, se fa dire al vecchio Chishu Ryu (felice prestito dal cast di Ozu) dell’ultimo sogno: “Dicono che la vita è dura, ma creda a me, vivere è bello, anzi, è entusiasmante”.
www.paoladigiuseppe.it
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