Regia di Ana Lily Amirpour vedi scheda film
Tra genialità e follia si aggiunge un nuovo originale capitolo sul genere vampiresco. Nostalgica e struggente, l'immagine di una vampira ci suggerisce nella leggerezza l'unica possibilità di vita.
Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: individuassimo nelle origini iraniane della regista la matrice di ispirazione del suo film d’esordio rischiamo di deragliare. Niente da spartire dunque, sul piano linguistico con i maestri di una delle cinematografie più interessanti del medio oriente, Ana Lily Amirpour ha sempre vissuto in America e fa della post modernità la sua cifra stilistica. Presentato come il primo “vampire iranian western”, il film si può definire come un B movie d’autore non privo di sfaccettature e di sguardi piuttosto critici anche se il melting pot creato dall’audace regista lascia immergere lo spettatore in un crogiolo visivo di qualità che lo ben dispone a soprassedere sulle battuta a vuoto. Anche la definizione di “tarantiniana” rifilata all’autrice è piuttosto limitante, forse più diretta alla stilizzazione del dettaglio che alla fluidità verbale, elemento quest’ultimo che se rappresenta uno dei punti di forza del genio di Knoxville nel lavoro della Amirpour è totalmente assente, privo di ritmo, controllato e scandito da pause e lunghi silenzi in favore dell’immagine. Una certa parentela con Jarmusch è invece più spiccata, più importante la preparazione che l’azione, determinanti i silenzi che i dialoghi, la ripetizione degli eventi che possiede quel minimo scartamento che fa progredire la storia. In una città desolata, contornata all’orizzonte dal solo movimento dei pozzi petroliferi, si aggira un giovane che vuole rivivere i fasti più innocenti di James Dean e del sogno americano anni 50. Sulla sua strada incrocerà una ragazza che agita il suo chador come un mantello e che si muove su di uno skate board, è una dolce e assatanata vampira che dispensa morsi di giustizia. Nel chiuso della sua stanza però la vediamo truccarsi, ballare e muoversi come un’eroina della nouvelle vague, forse più alla ricerca di timide profferte amorose e testimone di un tempo irrimediabilmente perduto. La città, Bad City, è solo abitata da spacciatori, delinquenti prostitute e tossicomani, l’azione purificatrice della giovane si abbatte inesorabilmente su di loro, e con la trovata del nero chador vampiresco la regista unisce miti e illusioni che vanno da oriente a occidente, snatura gli stereotipi tradizionali e li rilegge in chiave moderna e simbolica. L’intero film è impregnato di cinefilia spinta, citazioni e caricature iconiche creano un viaggio lisergico nel quale la regista dedica la sua folle dichiarazione d’amore. L’incontro tra i due protagonisti è folgorante, di notte, lei a caccia di vittime, lui vestito da Dracula e sballato, reduce da una festa mascherata. La Amirpour ci tiene lontano dagli squarci filosofici degli autori illustri che come tanti hanno esplorato il genere vampiresco, da Herzog ad Abel Ferrara, da Coppola al recente Alfredson di “Lasciami entrare”, così come dallo sterile inutile romanticismo alla Twilight. La provocazione della regista si manifesta con il punto di vista della ragazza (di cui non conosceremo neanche il nome, figuriamoci le finalità..). La sua azione violenta sottintende una ricerca di redenzione di questa società da una posizione conservatrice e punitiva o più semplicemente ci offre una visione di solitudine, di ricerca affettiva o di semplice autoaffermazione? Il mistero che la circonda e la rarefazione dei dialoghi non ci danno troppi spunti interpretativi e il film per come si sviluppa lascia cadere parte delle aspettative che invece era riuscito a creare con un ritmo ipnotico e avvolgente. I vampiri di Jarmusch succhiavano la linfa vitale presupponendo l’esistenza di un’umanità positiva da cui potere rigenerarsi, qui invece l’azione della vampira risulta moralmente contrapposta, bisognosa di sangue per darsi alla vita colpisce unicamente i soggetti che disprezzano la vita stessa. Non si crea un conflitto estetico nel quale rabbrividire ed individuare una discutibile teoria del brutto e di un orrore autentico in cui ricollocare la vicenda, l’irrazionalità della vampira viene condivisa, approvata senza remore e non avere introdotto un elemento di contraddizione semina qualche perplessità e riduce un pò il film verso una classificazione orientata al genere, con originalità certo, ma lo confina lì. Degna di nota la colonna sonora che spazia dall’etno pop ai temi da spaghetti western, mentre lo sfondo ci offre lo stesso movimento predatorio dei pozzi petroliferi nei confronti della terra che ingoia con noncuranza le vittime umane. Più che un manifesto anti consumista il film ci restituisce un personaggio intimamente fragile ma esteriormente determinato, come uno specchio dei tempi della contemporaneità, la cui decifrazione impossibile costringe per godersi un attimo di sopravvivenza a negare la propria natura, umana o soprannaturale che sia
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