Regia di Shlomi Elkabetz, Ronit Elkabetz vedi scheda film
Terzo film di una trilogia iniziata dieci anni fa dai registi israeliani Shlomi e Ronit Elkabetz (fratello e sorella): era stato girato nel 2004 ed era uscito (non in Italia) nel 2005 Prendre femme; così come era stato girato nel 2008 ed era uscito (non in Italia) nel 2009 Les sept jours. Questa volta è andata meglio.
Il film racconta la storia infinita di una richiesta di divorzio, presentata da Viviane Amsalem a un tribunale rabbinico israeliano.
Separata dal marito da tre anni, Viviane (Ronit Elkabetz), madre di famiglia e donna irreprensibile, vive ora del suo lavoro di parrucchiera, in un alloggio che condivide con la sorella. Non può più sopportare il marito Elisha (Simon Abkarian), non vuole più stare con lui e chiede che il tribunale lo convinca a concederle quello che dovrebbe essere un suo diritto, il divorzio.
Purtroppo le cose non funzionano così nello stato di Israele, quasi universalmente considerato un avamposto della democrazia occidentale, in un medio oriente generalmente non democratico, perché in materia di diritto matrimoniale vige la legge religiosa, secondo l’interpretazione dei rabbini, attenti a tutelare la “famiglia” attraverso l’applicazione della Torah, del tutto indifferenti alla vetustà di prescrizioni non sempre compatibili con la società di oggi, nella quale le donne, in Israele come nel resto del mondo, intendono contare sulle loro forze, emanciparsi dalla tutela maschile (non solo dei mariti, ma anche dei padri e dei fratelli) e decidere autonomamente della loro vita.
In un grottesco succedersi di testimoni, quasi tutti a favore del marito Elisha, un po’ ebete, un po’ furbacchione, quel diritto a divorziare, che in teoria dovrebbe riguardare uomini e donne, a poco a poco si trasforma in capo di imputazione, che coinvolge anche le poche e coraggiose testimoni a favore di Viviane, nonché il suo avvocato, secondo le peggiori tradizioni dei paesi totalitari in cui il solo fatto di difendere gli oppositori trasforma gli avvocati della difesa in imputati, quando non addirittura in rei.
Il film, però, non è solo la denuncia di un intollerabile sopruso che obbliga a riflettere sulla necessità dello stato laico, neutro di fronte a scelte individuali insindacabili: è, infatti, anche un bellissimo ritratto di donna, fiera e orgogliosa, cosciente di sé, non disposta a giustificarsi, paziente (il richiamo parrebbe a Giobbe), sempre più disperata e sgomenta per lo scorrere inesorabile dei mesi e degli anni fra assurdi rinvii, in attesa che giudici ottusi e indifferenti al dolore finalmente decidano.
Girato all’interno del tribunale, in un solo luogo come nella tragedia classica che rende appieno il senso di soffocante ingiustizia e di kafkiani, oscuri labirinti, questo bel film si fa seguire coinvolgendo pienamente gli spettatori sia per l’accuratezza della scrittura, sia per l’eccezionale interpretazione di Ronit Elkabetz, regista, attrice e ottima sceneggiatrice di questo straordinario lavoro.
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