Regia di Shlomi Elkabetz, Ronit Elkabetz vedi scheda film
Un tribunale rabbinico. Una causa civile. Una donna che cerca la sua libertà. Il dramma dura diversi anni, ma si consuma tra quattro pareti, nella stessa sala disadorna, dove si discute solo per accusare, per ribadire frasi fatte, per sommergere di parole ciò che non si vuole accettare. Viviane non è mai stata felice con il marito Elisha. Hanno formato una coppia moralmente irreprensibile, sono stati ottimi genitori, ma lei non ha mai avuto l’affetto di cui aveva veramente bisogno. Per questo è andata via da casa, portandosi dietro i tre figli più piccoli, ed ha presentato domanda di divorzio. Una richiesta che Elisha si rifiuta di accogliere. Il dibattito si trascina, pretestuoso ed estenuante, intorno ad una questione priva di riscontri oggettivi, ma impigliata in due scogli inamovibili: la disperazione di lei e l’ostinazione di lui. La contesa è una guerra di posizione in cui nessuno avanza o indietreggia di un millimetro, eppure proprio questo sembra un valido motivo per continuare a parlare, girando intorno a quella verità tanto inconsistente quanto inesorabile. Volere e non volere. Desiderare e negare. Sciogliere un matrimonio è prerogativa delle autorità religiose: esprime un potere che proviene da Dio, ma in realtà è saldamente in mano agli uomini, che però non hanno le capacità etiche ed intellettuali per poterlo amministrare. Il tira e molla è fondato su una dialettica da farsa, su un ragionare per finta, su argomentazioni che insistono ma non spiegano.
In fondo non c’è nulla da capire: si tratterebbe semplicemente di riconoscere un diritto, di cercare un accordo tra le parti, di calarsi umanamente in una situazione che non può essere affrontata con impostazioni dogmatiche. Invece il no di Elisha ha il peso di un divieto assoluto, che toglie ogni speranza, che interrompe ogni discorso. Le regole e i principi decidono al posto della coscienza. La vita coniugale dei due protagonisti è valutata sulla base di modelli generali di riferimento (la fedeltà, la solidità economica, la gestione della famiglia): se ne giudica, astrattamente, il funzionamento, la conformità ai vigenti canoni di qualità, senza mai entrare nel merito dei sentimenti, di ciò che le persone coinvolte provano e rappresentano, l’una per l’altra. La loro storia non conta, almeno non quella parte autenticamente vissuta, che riguarda la loro intimità, e che dall’esterno non si vede. Le anime non sono ammesse al dibattimento. Ci sono solo i corpi coperti con i vestiti di rito, la kippah in testa agli uomini, l’unica donna obbligata a portare i capelli raccolti. Scioglierli è uno scandalo. Ma Viviane, ad un certo punto, non resiste e lo fa. Vuole perdere da ribelle, essere sconfitta dalla legge ma senza chinarsi a costumi insensati e umilianti. Forse non le rimane altro, per conservare la sua dignità. Anche ridere in faccia ai giudici può servire allo scopo. Questo film interpreta la rigidità come un categorico dettame di stile, la indossa con perfetta aderenza al carattere ottuso del contesto, tanto da far sembrare stonata ogni minima nota di spontaneità. Il teatrino deve continuare, compiacendosi della sua ripetitività, fino a scadere inconsapevolmente nella caricatura. Si fa ridicolo, mentre si esibisce nella sua sterile autoreferenzialità. Il nonsenso si esaspera per effetto di un eccessivo rigore. La via d’uscita è stretta, tortuosa, a va scavata a forza con le dita. Il sofferto epilogo ci lascia, giustamente, con la sensazione di aver faticato a lungo, e invano, per rimanere infine soffocati a metà strada, stretti in un cunicolo che toglie il fiato.
Questo film ha rappresentato Israele agli Academy Awards 2015.
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