Regia di Shlomi Elkabetz, Ronit Elkabetz vedi scheda film
La parola gett, titolo originale di Viviane, indica un diritto di cui ogni donna israeliana viene privata al momento di unirsi in matrimonio: il diritto al divorzio. In un sistema che prevede unicamente l’unione religiosa, la donna può infatti ottenere solo dal marito, e di fronte a un tribunale di rabbini, la possibilità di abbandonare il domicilio coniugale. Viviane sta racchiuso in questa cornice legale e culturale: prende una stanza di tribunale, un gruppo di personaggi - una donna, Viviane, decisa a divorziare, un marito che non ne vuole sapere, tre giudici religiosi, due avvocati e una serie di testimoni - e costruisce un dramma tragico e insieme comico. Shlomi e Ronit Elkabetz, quest’ultima anche attrice nei panni della protagonista, giocano con l’assurdità della situazione, tra il diritto alla felicità della donna e l’ottusità del marito che nega il divorzio. Insistono quindi sull’esasperazione dei personaggi, sulla rigidità dell’ortodossia, sulla ripetizione delle sedute, ed elaborano uno stile che trasmette l’idea di trappola e di immobilità, tra il Kammerspiel e il cinema muto, Brecht e Dreyer, primi piani, totali e particolari su mani e piedi. La rabbia e l’ingiustizia sono tutte nelle parole e negli sguardi dei personaggi, mentre il cinema non può far altro che guardare impotente - e pure un po’ divertito - lo spettacolo senza tempo dello scontro fra legge e individuo, fede e società civile, regole e buon senso.
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