Regia di Peter Bogdanovich vedi scheda film
I fatti sono diversi della realtà, dice più o meno il prologo che esplica il mood della storia, come nei film dei bei tempi che furono: è la finzione che comanda, tutto è già stato detto, fatto, visto e a noi non ci resta che replicare, citare, manipolare. Avevamo uno straordinario bisogno di Peter Bogdanovich, della sua cinefilia spudorata e mediata che trova un senso nella produzione di un film come evento personale che si fa universale, nella prospettiva di un amore che si esprime nell’esercizio artigianale, nella consapevolezza critica, nell’abilità teorica.
È teoricamente un film importante, questo Tutto può accadere a Broadway (banale traduzione di She’s Funny That Way), qualcosa in più di un affettuoso ed incandescente omaggio alla screwball comedy tra Hawks e Lubitsch, dichiarata da un’orgia di citazioni (non solo gli scoiattoli alle noci di Fra le tue braccia come nume tutelare, ma anche le esplicite indicazioni delle girandole amorose di Mancia competente, il tragicomico ménage de L’orribile verità, la figura della buona squillo di Colazione da Tiffany e perfino i cazzotti del western non a caso hawksiano Un dollaro d’onore): ma c’è pure un trait d’union con la stanca o pigra commedia contemporanea americana, con quel che resta del miglior Allen (ancora la faccia di gomma di Owen Wilson, che pare lavorare con una vaga devozione alla tradizione brillante in bilico tra Woody e Lemmon) e qualche legame con Brooks (l’ultimo dei registi medi hollywoodiano a ragionare, pur con risultati discutibili, sulla screwball), nonché un’evocazione finale del Bogdanovich attore de I Soprano (in cui era uno psicanalista: qui la professione è appannaggio di una scatenata Jennifer Aniston).
In più, affida alla fresca Imogen Poots il testimone di un ruolo, quella della ragazza che mette scompiglio nelle geometrie sentimentali dei personaggi, che ha fatto la fortuna di un genere e di attrici memorabili, senza dimenticare l’attenzione per il coro, dall’ottima Kathryn Hann ai vecchi volponi George Morfogen e Austin Pendleton. Sfruttando le più rodate logiche del genere, l’autore di infiniti ultimi spettacoli ricerca formalmente una dimensione classica dirigendo il traffico con una leggerezza spesso frenetica («voglio fare i film che mi piacciono e, siccome mi piacciono i classici […] ne deriva che voglio fare i film come si facevano una volta») e collocando la svitata ronda in una mansueta New York che si fa teatro di una caotica pochade (un albergo di lusso con le prostitute nascoste nei bagni, un ristorante italiano in cui tutti i personaggi si ritrovano in una divertentissima sequenza, le tavole di un teatro per sottolineare il gioco apertamente metalinguistico e comunque scevro d’intellettualismi). E riesce a costruire un film che nessun giovane autore di commedie sarebbe capace di imbastire con il piacere, la gaiezza, la competenza, la scioltezza di questo meraviglioso signore settantacinquenne.
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