Regia di William Eubank vedi scheda film
Il segnale viene da chissà dove. Ad inviarlo è un hacker dalle capacità mai viste, che ha già violato il server del MIT. Quattro ragazzi gli stanno dando la caccia. Si direbbe il tipico inizio di un teen horror, che però, nei fatti, si rifiuta di essere tale, perché le sue ambizioni volano alto, dalle parti della fantascienza d’autore,, verso Ridley Scott e dintorni. A quattro anni di distanza dal suo non infelice esordio con Love, il giovane William Eubank torna a proporre una storia sospesa nel tempo, sollevata da terra, trasversale ai generi, incline alla riflessione senza esito. Lentezza e rarefazione compiono il loro dovere nel simulare il mistero, che tuttavia stenta a paludarsi della sua veste pratica, concretizzandosi in suspense. L’inganno non funziona, dato che qualche timido cenno alle gelide allucinazioni kubrickiane induce subito lo spettatore alla rassegnazione: troppo presto diventa chiaro che a dominare la scena sarà, fino alla fine, l’indecifrabilità di un racconto in cui gli opposti si toccano e si fondono per lasciare eternamente aperte tutte le domande. L’idea ci viene suggerita per mezzo di un lungo sussurro, che parte dalle ansie sentimentali di due dei protagonisti, per poi amalgamarsi con il respiro pesante del terrore, e finire per dissolversi nell’affanno adrenalinico di una fantasmagoria in perfetto stile Transformers. A tenerci incollati allo schermo è soltanto la curiosità di sapere se, prima o poi, l’enigma deciderà di scrollarsi di dosso la corazza asfittica dell’ermetismo e di ribellarsi alla tirannia della noia. Qualcosa, in effetti, accadrà, e non sarà del tutto prevedibile; ma la sorpresa, indecisa nel carattere e nella direzione da prendere, non potrà evitare lo sconfinamento nella delusione. Spiace davvero che le profondità umane toccate nell’opera precedente, per quanto insistentemente invocate, non riescano a donare suono e sapore ad un dramma che rimane afono, intrappolato nel vuoto spinto di una disperazione pura, una claustrofobia assoluta e informe, alla quale viene negato anche lo sfogo più naturale: il desiderio di fuggire, che qui si scontra con l’assenza di un mondo esterno, del quale si è estinta ogni percezione. Il viaggio di questo film naufraga per aver perso di vista il punto di partenza: quel senso del presente e della normalità che dovrebbe fungere da termine di confronto (e dunque da fonte di definizione) per ogni avventura. In The Signal, invece, il filo semplicemente si spezza, si inabissa nell’ignoto per poi riemergere, all’improvviso, esplodendo in mille pezzi. Non esiste traccia che ci indichi la strada, quella percorsa e quella che ancora ci resta da percorrere. E nemmeno un indizio che ci confermi, tragicamente, che davvero ci siamo smarriti.
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