Regia di Alejandro Fernández Almendras vedi scheda film
Anche il Cile ha il suo borghese piccolo piccolo. Ispirato ad una storia vera. Crudo e minimalista. Ed anche un po’ dubbioso, come in preda allo sgomento di chi non si riconosce nelle proprie azioni, nel grosso errore che, chissà come, ha appena commesso. In questo film padre e figlio hanno lo stesso nome. Si chiamano entrambi Jorge, e sono molto legati. Una sera, il primo viene aggredito e rapinato sottocasa da una banda di balordi. Il secondo reagisce, ma viene ferito. Il primo deciderà allora di farsi giustizia da sé. Di mezzo c’è una storia di stalking, a cui si somma l’inefficienza dell’apparato giudiziario. Il film di Alejandro Fernández Almendras è una miniatura di vita sociale che riassume l’attuale realtà delle metropoli: un mondo diviso in due, da una parte i tranquilli cittadini, dall’altra parte un sottobosco di gente sbandata, piccoli criminali, gruppi di vandali: un popolo dall’identità indefinita, finito ai margini per ragioni oscure, che comunque sembra irrecuperabile e rappresenta una minaccia. Il persecutore della famiglia dei due Jorge è un certo Kalule. È il classico nemico occasionale, il diverso che ti incontra per caso e ti aggredisce così, sulla strada: è uno qualunque, non ha nessun particolare motivo di avercela con te, eppure le circostanze vogliono che finisca per prenderti di mira. Due sconosciuti, appartenenti ad universi lontani, diventano in breve tempo l’uno l’ossessione dell’altro. La situazione si presenta senza via d’uscita, e le autorità non sono in grado di offrire alcuna difesa. L’assenza di una risposta valida da parte delle istituzioni pubbliche accentua, nei protagonisti, la sensazione che la guerra che si trovano a combattere sia una sfida di carattere privato, che riguarda esclusivamente loro: il sadico che si diverte a infierire sulle proprie vittime, e l’uomo che deve proteggere sua moglie e i suoi due ragazzi da quegli attacchi sempre più invasivi e volgari. L’evoluzione degli eventi è descritta con discreta chiarezza, anche se procede per salti, e con qualche accelerazione di troppo nella narrazione: di fatto ne vengono presentate solo le tappe salienti, senza che vengano dettagliati i passaggi intermedi. Colpisce soprattutto la mancanza di un avvenimento chiave, che si distingua nettamente dai precedenti, e che possa essere riconosciuto come la causa scatenante del sanguinoso epilogo. Il tono permane uniformemente distaccato, impostato sulla rarefatta freddezza di chi osserva da lontano, e con indifferenza, una vita che, a prescindere dai singoli episodi di violenza più o meno marcata, si svolge sempre uguale, tra la routine incolore dell’ambiente domestico e la pacifica vastità della natura: Jorge lavora come guardia forestale in un parco privato, e trascorre molte giornate in completa solitudine. Forse è proprio il suo prolungato isolamento – che si aggrava dopo il divorzio – a favorire la maturazione dei suoi propositi omicidi. È un’ipotesi plausibile, ma non sostenuta, nel racconto, da alcun indizio concreto. Si direbbe che Matar a un hombre sia un’opera nata intorno al suo finale, quella drammatica resa dei conti che prende allo stomaco con sconvolgente lentezza. Tutto il resto è un’appendice che funge da antefatto: una premessa formulata in maniera limpida e stilisticamente coerente, ma dall’aspetto un po’ debole e trascurato.
Questo film è stato selezionato per rappresentare il Cile agli Academy Awards 2015.
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