Regia di Michael Mann vedi scheda film
Il virtuale come motore del fuoricampo.
Michael Mann riesce sempre a sorprendere nella maniera più sopraffina, senza ostentare originalità ma giocando con gli stereotipi. Non è il giochetto programmaticamente sadico che distrugge lentamente le certezze dello spettatore, è più una ricerca estetica, che in Blackhat si traduce in un action anomalo e si potrebbe dire antispettacolare. Lo spettacolo c'è, ma è filtrato tramite uno sguardo autoriale che rende tutto freddo, realistico, palpitante, senza sensazionalismi, senza retroscena psicologici esagitati che avrebbero potuto rendere il nostro Chris "Thor" Hemsworth un eroe in cerca di redenzione. Sottopelle stanno vendetta, onestà (o la speranza di essere onesti), e dedizione, quasi ossessione, per gli affetti. Il protagonista fa tutto lo scaltro, ma non appena entra a far parte di quella task force dell'FBI che deve sventare gli attacchi cyber-terroristici che stanno mettendo in ginocchio i mercati azionari internazionali, comincia a vivere come amicizia quella relazione con i suoi nuovi "colleghi" o compagni detective. Si vanno instaurando dei rapporti umani che sembrano più capaci di comprendere i grandi motori degli eventi, senza condizionamenti a partire dai tremolii diplomatici che sussistono fra Cina e USA, dal canto loro quasi incapaci di collaborare anche di fronte a possibili disastri di entità gigantesca. Nel lento progredire degli eventi che costringe anche il più rispettoso dei poliziotti ad andare oltre i burocratici e deontologici impegni per cercare di fare davvero il proprio lavoro, Mann affonda la sua lama (o la sua mdp), enfatizzando il carattere relativistico insito nella natura degli accadimenti. Si può davvero affrontare la possibilità della catastrofe mantenendo ostinatamente vivo il pregiudizio morale?
Ancora non riusciamo ad abituarci, alla maniera di fare cinema di Michael Mann. E' un'onda d'urto, ogni volta riesce a rendere galvanizzante il momento più dialogato e lento e che in altre circostanze si sarebbe detto verboso. Di fronte alla grandezza visiva di certe immagini di Blackhat (cinema classico, quasi d'altri tempi, solo..riaggiornato alle moderne tecnologie), si riescono a giustificare certe pecche di sceneggiatura, certi punti scoperti, certi dialoghi fuori tempo massimo (avevamo bisogno del siparietto drammatico sull'11 settembre dell'agente Viola Davis?), certi personaggi un po' piatti. Probabilmente li si riescono a spiegare anche guardando al film come ad un esperimento visivo. Blackhat è un confronto costante con la luce, i pixel, il movimento. Fa tremolare l'immagine per guardare con allucinato realismo a una realtà sempre meno..reale. Con Blackhat lentamente diamo luce a un mistero che qui si tinge di trame ancora più fitte e inestricabili se le si pensa collegate a doppio nodo con gli intrugli cybernetici che non è previsto lo spettatore capisca fino in fondo ed è anche meglio così. In Blackhat lo scorrere invisibile, microscopico, di dati informatici che svolazzano da un lato all'altro del mondo con semplici clic o anche con semplici schiocchi di dita, assume a poco a poco forma non appena il protagonista potrà scontrarsi direttamente con l'antagonista. Sì, abbiamo un buono e un cattivo, e con ciò? Michael Mann rifonda l'immaginario action thriller del cinema contemporaneo riuscendo a mantenersi su toni classici (in pochi riescono a maneggiare altrettanto bene i ralenti o anche, a livello tematico, i manicheismi caratteriali), facendo un piccolo miracolo.
Dunque possiamo definire Blackhat come il lento disvelarsi del fuoricampo. Quello che c'è sempre ma non si vede mai, e che anzi Mann cerca di illustrarci all'inizio, nel groviglio labirintico di cavi e di fili e di luci che scorrono quasi senza senso, riuscendo a smontare e a distruggere le cose con la facilità di un gesto: la banalità - forse - del male, e di chi lo perpetua? Dietro non ci sono altro che mere, basse, passioni umane, lucide follie assolutamente prevedibili. Blackhat, che aspira a rendere palpabile il marcescente inafferrabile wi-fi della criminalità, e al contempo vorrebbe portare in scena la deriva folle che si dimentica del proprio lato umano (quello della possibilità di amare e di soffrire), non vuole dimostrare nulla. Al servizio di una narrazione lineare ma contorta, la trama di Blackhat scorre mostrando cosa è rimasto, cosa si può ancora vedere, che limiti raggiunge l'abiezione umana, quali sono le sovrastrutture che l'uomo rende sempre più fragili e che combattono a denti scoperti l'altra grande astrazione che però è lì e Mann vuole mostrare: la possibilità del sentimento. Cosa si salva, dell'essere umano?
Certo, parlare dell'epica di Blackhat rischia di portare in secondo piano il rigore della messa in scena, l'attenzione per l'evoluzione della trama, e molti aspetti tecnici che meritano da soli la visione al grande schermo (la corsa per le strade nei pressi della zona portuale difficilmente la si scorda). Ma è alla fine questo che conta, e che salva i personaggi a volte un po' sbiaditi dall'oblio. Blackhat è un film profondamente umano sull'uomo-macchina del XXI secolo, senza derive sociologiche ma con uno sguardo un poco apocalittico che ci rende tutti più vulnerabili.
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