Regia di Michael Mann vedi scheda film
Un hacker (il blackhat del titolo) si intrufola nel sistema di sicurezza di una centrale nucleare cinese facendo esplodere un reattore. Lo stesso hacker altera il prezzo della soia in borsa riuscendo a ricavare enormi profitti. Per fermarlo una task force cinese- americana formata da Carol Barrett (Viola Davis) agente FBI e un agente cinese esperto d’informatica Chen Dawai (Leehom Wang) deve spostarsi tra Los Angeles, Hong Kong e Jakarta servendosi di Nick Hathaway (Chris Hemsworth) un ex hacker specialista nelle truffe informatiche.
Blackhat arriva con il codazzo di critiche negative d’oltre oceano per un autore (a tutti gli effetti) forse più amato nel vecchio continente proprio per quelle caratteristiche che in patria non gli permettono di avere il giusto riconoscimento. Le storie per Mann, quali esse siano, sono un pretesto per parlare dell’uomo, delle scelte dolorose che deve perseguire, dell’amore e della passione. Un romantico metropolitano nel quale i corpi si fondono alle architetture urbane, alle luci artificiali della notte, al metallo e al vetro dei grattacieli, riverberanti di musica elettronicamente modificata, ronzante e parcellizzati e ricomposti in uno spazio tempo personale dal digitale estremo con il quale il regista cattura i suoi personaggi.
Sei anni dopo Nemico Pubblico, imposto il super-divo in declino Johnny Depp in una storia di gangster che non gli apparteneva, questo ritorno alle atmosfere più consone alla poetica di un regista il cui nome ha avuto sul campo l’onore di divenire aggettivo, “manniano” , si avvicina quanto più possibile al modello di perfezione e potenza visiva che fu Miami Vice. Si vede e si sente il tentativo di ricollegare un discorso perduto nove anni fa, quando quella macchina produttiva che lo sosteneva veniva schiantata dagli uragani che si abbatterono sulla Florida distruggendo il set per ben tre volte e facendo lievitare i costi del film a livelli proibitivi. La stessa macchina produttiva chiedeva di essere ripagato col film di cassetta d’autore col divo. Michael Mann in fondo è uno dei suoi personaggi, stritolato da ciò che egli stesso è e che non può fare a meno di essere.
Blackhat è solo in apparenza un thriller informatico. Quella è la copertura e Mann in ogni caso è troppo intelligente per affrontare un film da consolle e bit e codici binari. Anzi se ne allontana del tutto man mano che il film procede in una parabola che riconduce l’uomo alla sua essenza primigenia, ricollocandolo al centro delle proprie pulsioni, facendogli sentire sulla pelle l’odore del nemico come dell’amante. Se un thriller cibernetico si gioca sulla distanza, sull’immateriale, Mann impone che ad ogni tasto premuto sulla tastiera corrisponda un effetto reale, sempre più viscerale, presente e definitivo.
Ripercorrendo al contrario l’alba dell’uomo descritta da Kubrick, dall’osso all’astronave in una ellissi temporale vastissima, Mann incomincia il film in lampi di bit che si liquefano nell’immateriale ventre elettronico del cyber universo dove l’umano è totalmente assente, ormai marginale rispetto alle azioni che compie, per finire i suoi personaggi con furibonde coltellate in piazza durante una secolare cerimonia religiosa popolare. L’uomo è sceso dall’astronave e si è reimpossessato dell’arma per abbattere in duello rusticano il proprio nemico.
Tuttavia Blackhat non è un film perfetto, la regia è al solito sontuosa e tiene le redini di un film che ha il suo difetto in una sceneggiatura non sempre perfettamente calibrata (ad opera di Morgan Davis Foehl) e che molto spesso, colpa anche del soggetto stesso, cade nelle trappole della semplificazione eccessiva necessaria per far avanzare la storia, renderla credibile e soprattutto comprensibile ma che mostra alcune falle e ingenuità (vedere Note*). Nonostante questo la sceneggiatura trova un picco di drammaticità quando impone di far fuori tre personaggi principali nello spazio di un minuto nella scena centrale del film, quella della svolta, quella dove il protagonista deve prendere le decisioni che cambieranno la propria vita. Momento “manniano” al cento per cento.
Mentre è spettacolare la fotografia e la focale completamente priva di profondità di campo, scelta da Mann per schiacciare i personaggi nella bidimensionalità del qui e ora di una storia contemporanea, attuale e incombente. Il montaggio serrato e le ellissi narrative strettissime permettono al regista di ridurre la storia a flash, beccare i momenti e gli sguardi, azzeccare la solitudine di uno sguardo o un pianto impotente. Le arterie autostradali percorse da globuli-auto, le luci artificiali, la morte che arriva in una sparatoria da guerriglia urbana. Chi sa ode l’eco di Heat, chi ama freme per il rapporto d’amore che ricalca quello impossibile di Miami Vice. Persone lontane che si avvicinano perché altro non potrebbero fare. E poi ecco le aperture armoniche della musica di Atticus Ross e Harry Gregson-Williams filtrata anch’essa, come le vite dei personaggi, dall’elettronica per divenire qualcosa d’altro, un rumore ronzante di un device che ha acquistato un calore da essere umano. Che ha imparato ad esserlo.
Aerei d’argento catapultati nel blu di un cielo impotente.
C’è del blu, finalmente, in questo film. Il blu è il colore che Mann sceglie per dare empatia alle sue storie, per annegare i suoi personaggi nel mare, stagliarli contro il cielo o fonderli all’acciaio delle strutture urbane. Nei suoi lavori meno riusciti, meno personali questo colore manca del tutto. Nei film di Michael Mann è la forma che si fa contenuto. Blackhat è un film di pura forma.
Al netto di qualche difetto (lontani sono Insider, Miami Vice, Collateral) Blackhat è in ogni caso un film urgente e potente che cerca una traccia umana nell’impersonalità dell’informatica, là dove potrebbe anche non esserci. Non esiste più l’unità di luogo e tempo, l’universo privato si è espanso nella globale interconnessione di flussi di dati come arterie di un essere vivente invisibile nel quale l’uomo sopravvive solo grazie alle proprie labili certezze. Un appiglio filosofico ed etico che deve ricercare dentro se stesso per non perdere definitivamente il controllo della propria esistenza e la vita delle persone che ama. Non è un caso che l’antagonista principale sia tutto sommato, banale, senza spessore drammatico. Bidimensionale come la focale usata da Mann. Un chiunque non-uomo informatico che ha raggrumato l’etica, la filosofia di vita, la stessa prova della propria esistenza alla logica del profitto su scala globale e che acquista finalmente un peso reale solo durante lo scontro fisico finale con l’eroe. Il bene, terreno, forte, solido contro il male assoluto astratto, inconcepibile e incomprensibile. Una volta erano cavalieri contro stregoni.
Note:
*A cosa servono le telecamere di sorveglianza se poi nessuno, in qualsiasi circostanza, le guarda?
*Come fa un ragazzone americano rubicondo e biondo travisato solo da un cappellino da baseball a passare inosservato in una stanza tra gracili e piccoli jakartiani?
*Qualche numero di “Vanity Fair” serrati in vita da due giri di nastro adesivo possono fermare i colpi di un fucile semiautomatico?
*Postulato: nei film a carattere informatico pestando le dita freneticamente a caso su una tastiera si produce un impeccabile codice d’accesso in grado di far accedere a qualsiasi area protetta.
Adesso provo: bppoergk*+**joktlgvkma 679 dpgkqeo rogbmè//prkldjv kdòm aorgèìg èrkg èaè.
Non è successo nulla.
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