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Blackhat

Regia di Michael Mann vedi scheda film

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La recensione su Blackhat

di supadany
8 stelle

Pochi autori in circolazione possono riscuotere aspettative elevatissime ad ogni loro nuova opera e Michael Mann è sicuramente uno tra questi (e tra gli ultimi di una nidiata storica).

Questo per diversi ottimi motivi; non distilla film in serie, era fermo da “Nemico pubblico” (2009), ha una filmografia dalla quale più o meno chiunque ci ritrova qualche cult assoluto, la sua stella al botteghino è in picchiata nonostante una vena autoriale tutt’altro che in procinto di spegnersi, in più in questa occasione riesce a rinnovarsi, scegliendo un soggetto terribilmente moderno (e per una vagonata di buoni motivi) con una rappresentazione molto personale e sperimentale (utilizzo del digitale da avanguardia almeno per il tipo di produzione) pur mantenendo inalterate alcune prerogative cardine del suo cinema (vedasi ad esempio le caratteristiche dell’eroe protagonista).

In breve tempo il mondo è scosso da un’esplosione nucleare in Cina e da un’alterazione fraudolenta di dati finanziari, entrambi causati da infiltrazioni informatiche ad alto livello.

Le autorità di Cina e Stati Uniti faticano a collaborare per venirne a capo e viene costituito un team misto al quale è chiamato a collaborare, tra varie ritrosie, anche Nick Hathaway (Chris Hemsworth) un detenuto esperto in crimini informatici.

Le indagini sono rese ancor più complicate, di quanto già non siano, dai veti dall’alto, tanto che Nick è obbligato a giocarsi tutto andando avanti in solitaria coadiuvato solo da pochissime persone fidate.  

 

Chris Hemsworth

Blackhat (2015): Chris Hemsworth

 

Raramente capita di assistere ad un’opera dal budget consistente così benvoluto dalla critica che conta (almeno quella nostrana) ed altrettanto ostracizzato dal grande pubblico (questo senza eccezioni di sorta ahinoi) e si capisce presto il motivo di un distacco percettivo così macroscopico.

Michael Mann va per la sua strada, in tutto e per tutto più impervia del solito, tra scelte registiche, narrative e di cast che non fanno nulla per compiacere gratuitamente ai diktat del grande pubblico.

L’attacco è semplicemente favoloso e pone già nelle condizioni migliori; vista dall’alto di città illuminate (come enormi terminali attivi) per poi addentrarsi all’interno di circuiti informatici in attivazione per generare un disastro imponente con un effetto di profondità che non ha bisogno del 3D per ben figurare.

Un inizio incalzante che è un proscenio tanto ideale quanto simbolico per un’opera che tra scene action poderose girate in digitale (effetto compulsivo che non ricerca una chiarezza limpida, ma porta con se un’immersione totale e destabilizzante), una costruzione thrilling ad impennate, motivazioni personali (e di sistema), di base ed in (fondamentale) evoluzione, e temi portanti, elargisce un contesto estremamente ampio ed efficace.

Su quest’ultimo aspetto si può facilmente ricavare una visione pessimistica, lontana anni luce dal patriottismo “made in U.s.a.” che pervade quasi interamente il cinema americano di oggi.

Il sistema non prevede più giustizia come prerogativa cardine; spetta al singolo, spesso mosso da forze che vanno al di là dei massimi sistemi (le motivazioni mutano), andare per la sua rotta, mentre i colossi sono frenati da paure (come condividere un codice segreto) e burocrazia (ogni azione richiede permessi e collaborazioni difficili da ottenere) anche di fronte ad un pericolo potenzialmente devastante (per riallacciarmi alla realtà potrei citare l’Isis) e peggio ancora non ben identificato, facendo diventare chi combatte per una causa altrettanto scomodo dei peggiori terroristi.

E tutta la costruzione riesce ad essere galvanizzante anche nei momenti meno dinamici, a volte in un dialogo (come tra Nick e Chen nel ristorante cinese), o in una posa fissa (Nick fermo all’aeroporto che scruta l’orizzonte) con un’evoluzione che si arricchisce grazie ad una manciata di scene action (incredibile quella al porto, un richiamo alla rapina di “Heat, la sfida”, (1995)), almeno un colpo di scena enorme che annienta regole scritte (il secondo “face to face” con il braccio armato dei criminali), con anche scampoli struggenti ed in generale una spiccata abilità a generare sviluppi intelligenti.

Solo nell’ultima parte qualcosa pare funzionare meno bene, infatti a voler ben vedere (ma non è nemmeno così necessario) i tempi tra un’indagine in perenne salita e la sua risoluzione (che poi avviene un po’ troppo facilmente viste tutte le premesse) paiono scarsamente congrui, in più si potrebbe facilmente obiettare su alcune semplificazioni (come i passaggi da una cornice all’altra, con facilità di circolazione inimmaginabile).

Altro pregio è la scelta del protagonista; Chris Hemsworth riesce a togliersi i panni (ingombranti) di “Thor”, questo chiaramente grazie prima di tutto ad una scrittura densa ed arricchita del suo personaggio, mentre non ritrovare altri grandi nomi nel cast è scelta coraggiosa, ma anche affine a ciò che lo sviluppo porta in rilievo.

Così, ancora una volta, Michael Mann non delude, anzi rilancia, confermando di rimanere un autore capace di muoversi su binari a se stanti, tra innovazione e background personale, e per questo ancora più prezioso, tanto più alla luce del flop totale che sta riscontrando (costato 70 milioni di dollari, ne ha incassati ad oggi meno di 20) che potrebbe privarci in futuro di sue nuove intuizioni ad alti livelli (il suo è comunque un cinema che ha un costo).

Da preservare (a prescindere da quanto comunque ci si possa trovare di obiettabile).

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