Regia di Michael Mann vedi scheda film
Michael Mann preme "enter" e sei subito dentro al/il film. Una elaborata rete sinaptica in grado di (inter)connettere dati, informazioni, luoghi - fisici e del pensiero, tangibili e virtuali, alti e bassi, filologici e metatestuali -, e di coniugare - finalmente e definitivamente - rappresentazione cinematografica e realtà informatica. Blackhat è un - il - crime movie 2.0: rivelazione di un mondo (im)possibile, (grandiosa) arte del movimento applicata alle infinitesimali arterie del cosmo/organismo digitale. Insomma, pura poesia; avvolgente e ineluttabilmente votata a eccitare occhi, menti, cuori. Ma poesia i cui fenomenali versi escludono ogni facile o finanche concedibile ammiccamento: niente rime, nessuna furbizia, né tanto meno scappatoie o straabusate fascinazioni autoconclusive che riguardano in particolare i personaggi (poiché sotto l'egida della "morale" salvifica e assolutoria). Ogni parola, ogni impulso e flusso di codici, e figure retoriche e in campo: il sistema operativo manniano è di un rigore assoluto, religioso, radicale, sino alle estreme conseguenze (l'insuccesso di pubblico, le incomprensioni della critica seduta al pc/water). Il grande cineasta americano insegue/persegue un realismo complesso e compiuto, strutturale, che vive e si (di)spiega nelle dinamiche fluide e sensuali di un eterno presente (impresso in perpeuto sullo schermo). In perfetta armonia assembla/crea/esplora - con un senso della profondità straordinario - gli ignoti enigmatici spazi neurali delle trasmissioni dati (l'effetto è vertiginoso e inquietante allo stesso tempo), mentre primi e primissimi piani, dettagli (dell'apparentemente "normale") e istantanee di brandelli di vita, raccontano di corpi che abitano (pericolosamente) il momento. Quello che (non) c'è; e scorre in un susseguirsi cifrato di emozioni, rimozioni, confusioni, finali aperti (come lo è l'esistenza). Alla medesima (po)etica rispondono le iperboliche improvvise sequenze action che deflagrano/configurano dimensioni spaziotemporali sospendendole in un tragico limbo di indeterminatezza; lo stesso disorientamento che (in)anima i personaggi (nonché la storia stessa), tutti (rip)resi "dal vivo" (senza traccia di divismo alcuno: basti pensare a cosa altri avrebbero fatto dei cattivi, qui soltano, semplici "banali" credibilissimi cattivi), come fossero manifestazione/traduzione cinetica di programmi e codici identitari. Un linguaggio romantico, quello di Mann - sottolineato da musiche perturbanti (si sente l'influenza dell'Atticus Ross sodale di Trent Reznor negli ultimi lavori di David Fincher) e sacralizzato da un energico montaggio fluido - da custodire preziosamente e tramandare ai posteri.
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