Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Che scult questo ultimo film di Avati. Questa sera nell'affrontarlo ho provato quasi (e sottolineo quasi) le stesse sensazioni di disagio avvertite nel guardare l'opera di un altro regista prolifico quasi quanto lui, ovvero quella scempiaggine di To Rome with love di Woody Allen.
Imbarazzo perché amando entrambi i due diversissimi registi, mi trovo confuso e quasi frenato a doverne parlare con molte inevitabili riserve.
Questo “ragazzo d'oro” risulta spesso davvero indifendibile, quasi a tirarsi addosso masochisticamente una valanga di critiche e di disappunti. E' proprio la scrittura dei singoli personaggi, dal protagonista a quasi tutti coloro che gli ruotano attorno, a fare acqua da ogni parte.
Un designer insicuro e aspirante a trasformarsi in scrittore, ma senza successo in entrambe le occupazioni, vive anche una storia d'amore tormentata, frequentando una bella ragazza che ha appena rotto col suo più prossimo collega di lavoro, ma del quale la donna è in realtà ancora sotto sotto infatuata.
La morte, repentina ed improvvisa, probabilmente per un incidente stradale, del padre del protagonista, regista di filmacci commerciali famosissimi ma distrutti dalla critica, infligge ulteriori sensi di colpa al disagiato e moralmente debole ragazzo, che non ha mai veramente legato col padre, che non vedeva da tempo ed il cui ricordo era unicamente legato ad un episodio ginnico della propria infanzia che lo vide vittorioso con la complicità del genitore.
E mentre l'assicurazione, sulla quale guarda caso pendeva una strategica polizza sulla vita, sta cercando in tutti i modi di confutare l'ipotesi del suicidio, il figlio viene contattato da una improbabile editrice dall'accento americano ma dal nome italianissimo di Ludovica, che si rivelerà una nemmeno molto segreta amante del defunto, alla ricerca di un supposto testo scritto che potrebbe rivelarsi il capolavoro mai compiuto da un artista incompreso e sottovalutato da chiunque.
Questo, per quanto assurdo, è nulla rispetto a quanto succede ancora e a ciò che caratterizza altre piccole strambe storie che si concatenano al corso principale e già farraginoso degli eventi.
Riccardo Scamarcio cerca di reggere almeno una prima parte, ma si arrende in tutta la seconda, per crollare letteralmente in zona manicomio. Sharon Stone, che a dire di Avati, ha svolto il suo ruolo con fredda e distaccata professionalità, ha avuto certamente le sue motivazioni, che comprendiamo alla perfezione, condividendone l'imbarazzo.
E se Avati si fa del male da solo aggiungendo comparsate come quella della Marini piangente al funerale, che fa debordare il kitch oltre ogni soglia di tollerabilità (anche se consci che si sta parlando dell'opera – si fa per dire - di un regista di fil malla Bombolo e Nadia Cassini), il film può vantare un unico vero personaggio riuscito: quello del cineasta defunto, che è l'individuo meglio descritto e sviscerato: peccato che costui non si veda mai in tutto il film se non in qualche foto di gioventù ed in un vecchio super8 in bianco e nero.
Avati è un grande regista che conosco piuttosto bene, che amo già dai tempi dell'horror padano dei Settanta, e che ha all'attivo decine e decine di film spesso piccoli e introspettivi, ma quasi sempre notevoli se non eccezionali per qualità e riuscita (negli anni '80 ogni sua pellicola, a cadenza pressoché annuale, era una emozione assicurata, da Una gita scolastica a Festa di Laurea, da Regalo di Natale a Storia di ragazze e ragazzi, da Zeder a Impiegati). Nel novero dei suoi molti prodotti riusciti, anche dal Duemila ad oggi, penso sia realisticamente innegabile che questo suo ultimo lavoro posticcio, confuso e piuttosto approssimativo e schematico, non possa in alcun modo ambire a rientrarvi.
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