Regia di Saverio Costanzo vedi scheda film
Un'invasata vegana impedisce al suo neonato di nutrirsi normalmente e di vedere medici; il padre, preoccupato per il piccolo, tenta di somministrargli carne di nascosto. Invano, perchè la madre tiene il bambino sotto strettissimo controllo, impedendogli perfino di uscire di casa. Lui allora si rivolge ai servizi sociali, ma sono troppo lenti e gli consigliano semplicemente di rapire il bambino. La madre lo ritrova e denuncia il padre; interviene così la nonna paterna per farla finita una buona volta.
Storia ad alto tasso di drammaticità, preoccupantemente verosimile, con picchi stonati di tragedia: Hungry hearts è l'ambizioso ritorno sul grande schermo di Saverio - figlio di Maurizio - Costanzo, a quattro anni di distanza da La solitudine dei numeri primi, lì come qui impegnato a dirigere Alba Rohrwacher, sua compagna nella vita. Le tematiche in ballo sono scottanti e trattate quasi sempre con i guanti; ogni tanto però al regista e sceneggiatore (da un romanzo di Marco Franzoso, Il bambino indaco) sfugge il controllo del pathos e inventa qualcosa per ravvivare un po' una storia tirata per le lunghe (quasi due ore di durata, eliminando la prima mezzora non cambierebbe assolutamente nulla - per dire). Ad esempio, il rapimento improvvisato del bambino o il 'colpo di scena' conclusivo, che pare più un espediente sbrigativo per chiudere una trama altrimenti ingestibile; molte perplessità si spendono anche su quei cinque minuti di fish eye a casaccio a un certo punto del film (forse simboleggia la distorsione nella mente della protagonista? No, perchè le cose peggioreranno e il fish eye, così come dal nulla è arrivato, nel nulla sparirà). Ma, come detto, la materia di fondo del lavoro merita parecchio approfondimento, anche perchè raramente al cinema ci si immerge con tanto scrupolo nelle ansie della maternità (e paternità) e di questo va dato atto al talentuoso regista, come agli interpreti bene in parte - entrambi i protagonisti saranno premiati a Venezia 2014, la Rohrwacher e Adam Driver. Questo non impedisce comunque di considerare insensata e controproducente la scelta di non dare mai un nome, in oltre un'ora di comparsa in scena, al bambino (d'altronde neppure New York viene citata; e l'incipit peraltro è ambientato in un ristorante cinese, cosa che non aiuta molto a definire il luogo nel mondo in cui ci troviamo), così come fanno storcere un po' il naso certi tagli drastici (settimane, mesi) nella narrazione, da comprendere con molta fatica nei successivi dialoghi. La cosa migliore senza dubbio rimane il pianosequenza a camera fissa iniziale: ma è un bellissimo pezzo comico! Che c'entra con tutto quanto seguirà? Qualcuno potrebbe sostenere: il film racconta una storia d'amore che nasce e finisce in merda. 4/10.
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