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Hungry Hearts

Regia di Saverio Costanzo vedi scheda film

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La recensione su Hungry Hearts

di LorCio
8 stelle

Sono sorte grosse polemiche attorno a questo Hungry Hearts, accusato d’essere un film misogino. Come hanno notato altri prima di me, si presenta lo stesso problema del recente Gone Girl. Lo risolvo come l’ho spassionatamente risolto con Fincher: non me ne frega niente. È un film misogino? Sì, forse, non lo so, ma non me ne frega niente. A me interessa il film in sé e non la presunta struttura ideologica che vogliono leggervi commentatori tuttologi. E infatti, ragionando proprio sul quarto film di Saverio Costanzo emerge lapalissiana l’evidenza di un talento che sta finalmente trovando una propria dimensione ideale.

 

Già col precedente (benché irrisolto) La solitudine dei numeri primi s’era intuita una certa vena sadica in questo autore interessato, come già s’era visto nei primi due film, allo spazio e ai corpi. Che detto così sembra una roba abbastanza vuota, e allora ricorrerei ad un termine molto gravoso: claustrofobia. Costanzo gira (e mi riferisco proprio all’azione fisica del “girare”) la storia di due corpi a loro modo costretti a vivere in cattività in uno spazio che rifiutano: Mina, che non ha più nessuno al mondo, rincorre un’ossessiva purezza in cui far crescere il proprio figlio, rifiutando l’esterno e in definitiva il mondo; il marito Jude, emancipatosi da una simpatica madre chissà perché ingombrante (eccellente Roberta Maxwell), si ritrova imbrigliato nelle maglie di questa donna malata.

 

Costanzo li raffigura, specie nell’appartamento che occupano a New York, ricorrendo alla deformazione dell’immagine attraverso particolari obiettivi, sfruttando una tipica pratica del cinema di tensione se non dell’orrore ed affermando così l’intenzione di costruire un film totalmente impossibilitato ad una via di fuga che non sia naturalmente tragica. A nulla serve quella prima mezz’ora in cui, tra una situazione da rom-com in bagno ad una cantata di Modugno, pare avere il garbo di chi contamina i codici del cinema indie americano con una sensibilità più spettacolarmente italiana, coronando il tutto con quella riflessione sulla profezia della maga a cui vogliono credere a prescindere “perché è una cosa bella”.

 

Ritrovandosi poi in un turbinio di simbolismi (il cervo, le piante, l’acqua…), il film assume pian piano i contorni di un melodramma nero e disgraziato in cui l’anatomica e controllata fotografia di Fabio Cianchetti e la musica dolce ed inquietante di Nicola Piovani assistono l’abilissimo lavoro di regia nel conferire alla vicenda i colori e i toni di una discesa agli inferi priva di effettismi pacchiani e tesa alla straziante non-soluzione finale. Rispetto ad Alba Rohrwacher che, pur al solito impeccabile, pare ripetere una tipologia di ruolo che l’è congeniale e non garantisce una totale comprensione dell’allucinante mentalità di un personaggio comunque sgradevolissimo, piace segnalare il sofferto Adam Driver, magistrale nel rappresentare lo sconcerto dell’innamorato che non comprende. Peccato per il doppiaggio.

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