Regia di Saverio Costanzo vedi scheda film
Quando l'amore non basta. Perché esistono altre necessità, fisiologiche, istintuali, qualcosa che va oltre il sentimento, e che il titolo inglese Hungry Hearts ottiene saggiamente tramite un curioso accostamento quasi ossimorico, se vogliamo sinestetico. Dunque, cuori affamati. Di amore prima, di purezza dopo, soprattutto lei, Mina, un'Alba Rohrwacher senza precedenti, terrificante ma al contempo tenera madre ossessionata dall'idea dell'incontaminazione. Lui, Jude, giovane ingegnere americano, la ama alla follia, ma il suo amore è costretto ad affrontare la terribile degenerazione dello stato d'animo della moglie, che, non appena partorisce il loro primo figlio, decide di non doverlo nutrire né di omogeneizzati, né di carne o di derivati, né esporlo al Sole, farlo uscire spesso, metterlo a contatto con persone che sono venute da fuori, con la gravissima conseguenza che il bambino stenta a crescere nel fisico e risulta ben presto sottopeso e in serio pericolo. Lo scontro dunque fra irrazionalità e buon senso può avere inizio, uno scontro titanico che genera troppe contraddizioni per non intimorire e non diffondere lungo la spina dorsale dello spettatore un brivido terrorizzato.
Hungry Hearts prescinde il genere, parte da un'appassionata storia d'amore, iniziata nella maniera più divertente (la prima scena è esilarante, ed è l'unica a mdp fissa) e diventa a poco a poco uno psicodramma, un thriller, e infine quasi un horror a tutti gli effetti. La tensione infatti cresce a dismisura quando non si sanno più che pesci pigliare, e non si sa davvero come porsi di fronte a una madre impazzita che cerca di controllare maniacalmente il figlio, ma di farlo anche con rigore, attenzione, razionalità. Insomma uno stato pericoloso e letale, quello di una follia ponderata, controllata, attenta, geometrica. Mostruosa. Infatti la pazza Mina (che pazza non è, è qualcos'altro di indecifrabile) non esplode mai in attacchi di rabbia, non urla (specie di fronte al bambino), non si arrabbia: lei fa finta di accettare le condizioni di un marito apprensivo nei confronti del figlio, per poi fare di nascosto tutt'altro. Un figlio che è un bambino indaco (il titolo del libro di Franzoso, ovvero un bambino destinato a salvare la sorte degli uomini sulla Terra: un personaggio onnipresente ma nel film senza nome) e che è vittima di un cuore affamato di purezza.
La regia di Costanzo è fenomenale: gli accorgimenti espressionistici che lo spingono a muoversi, ad attaccarsi ai visi e alle espressioni, spesso anche ai corpi (e come è evidente, la dimensione corporale ha una sua valenza fondamentale) rendono verosimili anche i momenti più strani e stranianti, e ingigantiscono la paura che comincia a crearsi. Come, dopotutto, attaccare a prescindere una madre che esprime un affetto totalizzante nei confronti del figlio? Una madre così misurata, fredda, eppure distante, come un serpente pronto ad attaccare? In questa maniera le contraddizioni si infittiscono, e insorge un reale malessere. Fino a un finale che definisce perfettamente i personaggi (anche quello della madre di lui) e conclude in maniera anche estremamente commovente una storia terribile, ansiolitica e quasi brutale. Che merita il titolo per niente gratuito ma meritocratico di nuovo capolavoro del cinema italiano.
Presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia.
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