Regia di Saverio Costanzo vedi scheda film
I cuori affamati spesso perdono la lucidità. Affamati d’affetto, non riescono a percepire quale sia la vera realtà che li circonda, rifugiandosi in chimere effimere, fantasiose e al limite con la follia. In cerca di qualcosa che li sazi, si affidano a mere illusioni, che gli psichiatri di tutto il mondo faticherebbero a capire. La ricerca di approvazione e il bisogno di evadere dai problemi della realtà quotidiana porta a cercare risposte in luoghi, teorie e idee, che non hanno alcun riscontro nella vita di tutti i giorni. Per Mina, la punizione nei confronti di se stessa non è mai percepita come tale: il cibo è un accessorio e come tale inutile. Si rifugia nel veganesimo, rifiuta la medicina tradizionale, inventa un proprio mondo di manie e pensieri, che non considera reato trasmettere al figlio appena nato.
Aver perso la madre a due anni e non aver avuto mai un padre presente possono essere le cause scatenanti ma in certe circostanze non esistono motivi logici che possano spiegare i malesseri. Un bambino indaco, così si sente dire da una chiaroveggente, è quello che scopre di avere in grembo dopo aver conosciuto Jude, ingegnere americano, nei bagni di un ristorante cinese. Un bambino indaco è colui che viene mandato da un’altra dimensione sulla Terra e che ha bisogno di essere protetto dall’esterno: forte di questa convinzione, Mina affronta la gravidanza come una sfida. Il nascituro deve essere protetto sin da subito da proteine animali, agenti chimici e da farmaci, incurante di quanto possa essere complicato partorire quando la madre è completamente disidratata e sottopeso. Superando con qualche difficoltà il momento, Mina sa come deve crescere il neonato, sa come deve proteggerlo e nessuno, tanto meno il padre, può interferire con le sue decisioni. Che il bambino al settimo mese non stia più crescendo è un dettaglio: le abitudini della mamma devono trasferirsi a lui, si devono consolidare nel suo organismo e si aspetterà il momento in cui il corpicino del piccolo comincerà a reagire e a farsi forte. Niente luoghi pubblici, niente latte, niente omogenizzati: la purezza non ammette contaminazioni, quel cordone ombelicale deve rimanere integro e non spezzarsi. La parola famiglia per Mina è quasi un mantra e in una famiglia si condividono le scelte, senza possibilità di discussione. Quando Jude si accorgerà di quanto realmente sta accadendo, la tragedia sarà difficile da fermare: il disadattamento si trasformerà in lucida follia e nessun ripensamento sarà ammesso.
Adattando il romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, Saverio Costanzo costruisce in Hungry Hearts il racconto di un malessere interiore difficile da debellare. Lo fa per ellissi e costruendo passo dopo passo la psicologia dei suoi personaggi, seminando indizi e palesando l’inevitabile. Procedendo per dicotomie (America/Italia, madre/padre, tradizione/veganesimo, dentro/fuori, giusto/sbagliato, famiglia/singolarità), Costanzo usa la camera a mano per seguire da vicino i due personaggi principali del racconto, per entrare nelle loro esistenze e per restituire con uno sguardo naturalista meccanismi mentali difficili da comprendere per chi non le ha mai vissute. Follia e genio procedono di pari passo e si sposano in Mia, interpretata da una ottima Alba Rohrwacher (ormai specialista nei ruoli da disadattata), la cui lucidità della scena iniziale lascia presto il posto a una discesa negli inferi senza precedenti, a una fame di vita che abbandona il metaforico per farsi concreta, a un modus vivendi in cui niente è lasciato al caso. A Adam Driver, sulle cui spalle poggia la razionalità, il compito di far da contraltare all’’attrice, di redarguirla con un sguardo e di sostenerne la carica emotiva della recitazione. Senza mai giudicare o farsi portatore di valori filosofici universali, Costanzo affonda il coltello in una delle piaghe più difficili da raccontare: il male di vivere, che spesso molti di noi hanno incontrato.
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