Regia di Mike Binder vedi scheda film
Costruire a tavolino storie di forte impatto emotivo ha pro e contro.
Un titolo come Black or white è intellegibile fin dagli albori, ma va anche detto che arriva (ripetutamente) al punto offrendo emozioni che tranciano a metà il cuore. Automaticamente, chi intuisce tutto alla prima strofa rischia l’assuefazione, mentre chi vuole prima di ogni altra cosa farsi trascinare, trova pane per i suoi denti.
Elliot Anderson (Kevin Costner) è un avvocato di successo che, dopo la morte di figlia e moglie, ha nella nipote Eloise (Jillian Estell) l’affetto più caro.
Il dolore lo porta a bere, mentre la nonna paterna Rowena (Octavia Spencer) lo chiama in causa per ottenere la custodia esclusiva della piccola, giocando la carta del ritorno del padre (André Holland), da sempre assente ingiustificato e dedito al consumo di droga.
Tra i due nonni s’instaura un’aspra battaglia giudiziaria, che va oltre gli interessi della bambina.
La confezione di Black or white è sigillata a dovere per instillare una cospicua dose di partecipazione. Fin dalla sua apertura non tiene da parte niente e Mike Binder (Reign over me) dimostra di conoscere a memoria il repertorio, posizionando pezzi di chi non c’è più, personalità accese e il focus su uno scricciolo amorevole che chiunque dotato di un cuore vorrebbe semplicemente vedere felice.
Così facendo, la premeditazione galoppa senza ammettere deroghe, gli angoli indesiderati sono smussati senza troppi problemi, il dolore, per quanto manifesto, è addomesticato sulle note desiderate e anche la contrapposizione insita nel titolo tra bianco e nero è di poco conto, castigata fin da subito con la presenza di un insegnante nero (Duvan, interpretato da Mpho Kohao), con beghe legali che vantano ragioni sparpagliate.
Si potrebbe dire che Black or white faccia semplicemente il suo corso, ma l’intromissione di canzoni strappalacrime posizionate (e cotte) a puntino, così come psicologie spicce e ammiccanti, non fanno tornare i conti.
Di contro, Kevin Costner e Octavia Spencer sono due assi (nella manica) che marcano la passerella, costruita ad hoc per consentire loro di gigioneggiare: lui segnato da alcol, ferite interiori e amore, lei espansiva in ogni direzione, di animo buono ma senza alcuna finezza comportamentale (un po' come fece in The help). Due anime/presenze che reggono la scena alimentandosi di ogni esasperazione cui sono sottoposti, ma tutta la partitura è cedevole.
Alla fine, azionare il buon senso pare troppo complicato, l’aggiunta del potenziale razzismo al contrario è un surplus assolutamente accantonabile e la parte finale offre il peggio, tra un confronto organizzato con estrema leggerezza e un’ultima udienza che vede - tutto d’un tratto - la ragione fare capolino e prevalere su tutto.
Dunque, Black or white completa il suo tragitto senza detonazioni puntuali, con il sentimentalismo a fare il suo incontrovertibile corso, subendo il voler stanziare ogni particolare con irruenza.
Quando l’effetto, inconfutabilmente evidente, è macchiato da un’impostazione premeditata.
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