Regia di Mike Binder vedi scheda film
Una ragazzina di 17 anni resta incinta di un balordo drogato di 23 e si vergogna di dirlo ai genitori. Quando non può più nascondere il suo stato scappa di casa. Partorisce in ospedale, ma è tutta sola, ha un difetto cardiaco e nessuno l'ha comunicato ai medici, che non riescono a salvarle la vita. I nonni, straziati, allevano con amore la piccola Eloise, a cui non fanno mancare nulla: Elliott è un 60enne avvocato benestante e la moglie Carol dedica ogni minuto alla nipotina. Sono in rapporti non particolarmente stretti ma decisamente civili con l'altra nonna, Rowena detta Wee Wee, donna intelligente e imprenditrice capace, fiera matriarca di una famiglia numerosa e pittoresca. L'incosciente papà si è invece limitato negli anni a far visita alla figlia giusto un paio di volte, strafatto di crack, solo per estorcere denaro ai suoceri.
Di questo antefatto veniamo a conoscenza nel corso del film, la prima scena si svolge infatti al pronto soccorso: Carol è rimasta uccisa in un incidente stradale. Elliott affoga il suo dolore nel whisky e si scontra con le quotidiane difficoltà di allevare da solo una bambina di 7 anni. Decide di mettersi in aspettativa dal lavoro ed assume per lei come tutor Duvan, universitario di origine africana che diventa ben presto parte della famiglia. Inaspettatamente nonna Wee Wee chiede al giudice, a nome del riluttante figlio Reggie, l'affidamento esclusivo di Eloise. Anche se è titubante su una linea così aggressiva, su pressione del fratello Jonathan, anche lui avvocato, accusa Elliott di essere del tutto inadatto ad allevare sua nipote, perché è un alcolizzato e un razzista. Sì, perché Elliott è bianco e Rowena è nera.
Mike Binder, sceneggiatore e regista, si è ispirato per questa storia alla sua esperienza personale: ha allevato a Santa Monica insieme ai suoi 2 figli il bambino della defunta sorella di sua moglie. La famiglia del padre, da tempo sparito dalla sua vita, viveva a South Central, una zona di Los Angeles caratterizzata da un'alta percentuale di popolazione di colore e da un altissimo tasso di crimine e violenza. Sempre in contatto con la famiglia paterna, è cresciuto fra due mondi ed è stato un bambino felice, ma tutte le persone - di qua e di là - consideravano un problema il fatto che fosse mezzo bianco e mezzo nero. Ha perciò voluto descrivere questo scenario e fare un film che innescasse un dibattito sulla direzione che sta prendendo la questione razziale negli Stati Uniti. "Quello che ci salverà, secondo me, sarà il mischiarci tra di noi il più possibile, in modo che i nostri figli non sapranno più di che colore sono, e a quel punto saranno solamente persone."
BLACK OR WHITE non parla solo di colore della pelle: è uno sguardo su due mondi apparentemente diversi, in cui nulla è semplice come il bianco o il nero. La bambina è divisa tra due famiglie che la amano profondamente e che con le migliori intenzioni lottano per ciò che sentono giusto. Da una parte un uomo che ha già perso le due donne più importanti della sua vita e sta per perdere la terza; e non beve perché è alcolizzato, è solo triste e arrabbiato col mondo. Dall'altra una donna fortissima e accentratrice, tanto abile negli affari quanto accecata dall'amore per il figlio, al punto di non vederne i reali problemi. Entrambi sono costretti a confrontarsi con i loro veri sentimenti sulla razza, il perdono e la reciproca comprensione.
Non è mai facile fare un film basato sulle questioni razziali: anni fa richiedeva addirittura coraggio, oggi occorre comunque molta intelligenza e sensibilità. Mike Binder vince la sfida raccontando onestamente una storia di perdite insopportabili, rabbia, amore, dolore, redenzione, tolleranza e intolleranza da entrambe le parti, senza mai cadere nel sentimentale o nel patetico. Certo 15 minuti in meno non avrebbero guastato, e avremmo fatto a meno dell'insopportabile fidanzata dell'avvocato (che giustamente sparisce non rimpianta nella seconda parte), ma sono difetti tollerabili. Ottima la prova attoriale dei protagonisti, su tutti Kevin Costner - anche entusiasta produttore - che dà al suo personaggio solidità e realismo, il suo ruolo migliore da alcuni anni a questa parte. Octavia Spencer è la nonna decisa a fare la cosa giusta in un'interpretazione asciutta, riuscendo sempre a sfuggire il pericolo dello stereotipo della "nonna nera". Rischia di rubare più volte la scena Mpho Koaho, nei panni dell'africano colto che non si trova per nulla a suo agio fra i proletari neri di Los Angeles. E come non menzionare la tenera, naturalissima Jillian Estell.
Martin Luther King nel suo discorso "I Have A Dream" auspicò "non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere." Ne siamo ancora lontani, ma credo che questo film sia riuscito a togliere almeno un mattone al muro che ancora divide bianchi e neri.
(Pubblicato in precedenza su www.masedomani,com)
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