Regia di Daniele Ciprì vedi scheda film
Forse era ieri. Forse oggi. O forse mai. Forse il tempo che non c’è è il vero teatro della realtà: un presente eternamente arretrato, che resta tale in attesa che i suoi problemi si risolvano, che il progresso arrivi per tutti, che gli antichi rancori svaniscano. Finché c’è ingiustizia le cose non si muovono davvero. Gli uomini vivono in un triste passato, sovrastati da un futuro dall’aspetto lugubre ed inespressivo. Le scenografie di Daniele Ciprì ci riportano ai casermoni postmoderni delle periferie palermitane, austeri ma privi di vita, monumenti alle conquiste di pura facciata ottenute dalla civiltà. Anche qui, in questo luogo senza nome, in mezzo a strade che hanno il volto arrugginito degli anni cinquanta, mentre i pensieri volano allo stalking e alla globalizzazione, la terra gira a due velocità. In basso lo sgangherato dolore della gente, in alto le ideologie che odorano di maniacalità, che si consumano nell’elitaria rarefazione di un’atmosfera priva di vita vissuta. L’autenticità del male è quella che si scopre scavando: la sua nicchia metaforica è una buca nel selciato, intorno a cui si raccolgono le storie di chi cerca una bugia, un diversivo, un pretesto, una scappatoia ad una miseria che non trova altro rimedio. Oscar è l’avvocato squattrinato delle truffe alle assicurazioni, dei falsi invalidi, degli incidenti simulati. Armando è il detenuto finito in carcere per sbaglio, rilasciato dopo quasi trent’anni, e rifiutato da tutti. Internazionale è l’improbabile nome di un cane rimasto senza padrone, che, istintivamente, decide di unire la propria solitudine a quella nuova esistenza randagia. I tre protagonisti si ritrovano insieme un po’ per caso, un po’ per necessità: la solidarietà è uno slancio che scatta senza convinzione, senza scopi nobili, sotto la spinta di un opportunismo a cui la disperazione funge da rispettabile attenuante. Il quadro è povero di sostanza, stentato e scolorito come una vecchia foto fuori fuoco, acceso soltanto qua e là dai vividi sprazzi del ricordo: un amore sognato, una speranza intravista, una distrazione fatale. Quelle immagini sono sopravvissute alla generale alienazione, ma si trascinano moribonde attraverso i postumi di un insanabile impazzimento: la bella ragazza è scomparsa nel nulla, gli amici traditori sono finiti in cenere, la madre ha perso la memoria ed ha adottato come figlio un perfetto sconosciuto. Ciò che rimane è solo l’eco del paradosso, incarnato da quella testimone ultracentenaria che ripete la sua calunnia come un dissennato mantra. Le macerie che ingombrano il terreno sono scorie dell’assurdo: sono lasciti di un paradosso che ammorba l’aria, rendendola stantia, torbida, priva del ricambio che fa alternare le stagioni portando sempre salutari novità. Il racconto annaspa nell’istante che è rimasto ingabbiato, come dentro la cella che, per l’innocente, si è aperta troppo tardi, o nella limitatezza delle iniziative che nascono monche, e a cui la sorte fa pure lo sgambetto. Questo film può sembrare arrancante, non riuscito, impantanato nel polveroso ciarpame del vintage da quattro soldi, tirato fuori da una soffitta senza storia. Capita che l’opera si copra di una patina nerastra, quando crede troppo nella sua sporca missione: allora il romanzo si fa brutto, come il suo soggetto, come lo squallore casereccio che lo ispira. Partecipa alla sua asfittica amarezza, a quel respiro corto che rende piccoli, anonimi ed imbelli coloro che ne hanno viste troppe. L’originalità è un’energia che, all’occorrenza, può decidere di muoversi a fatica: un volo radente che sbatacchia le ali contro il suolo, per non perdere di vista il suo umile, lacrimevole nido.
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