Regia di Daniele Ciprì vedi scheda film
A Ciprì piacciono i dettagli: nel suo esordio solista (È stato il figlio) l'origine di tutto era un graffio sull'automobile; qui una buca (utilizzata anche in senso metaforico) che è l'ennesimo pretesto per Oscar (interpretato da un Castellitto survoltato), avvocato parassita e scorbutico, per cercare di arraffare soldi con un suo assistito. Ma l'occasione ghiotta sembra arrivare con il morso di un cane, pretestuoso e del tutto inventato, per il quale chiede un risarcimento al suo presunto padrone (Papaleo). Peccato che il malcapitato sia un povero diavolo appena uscito dalla galera dopo una detenzione ingiusta di 27 anni. Compreso che dall'uomo non rimedierà un quattrino, l'avvocato mira ancora più in alto, a un maxirisarcimento per l'ingiusta pena subita.
Mentre Franco Maresco continua a sfornare lavori da incorniciare (Io sono Tony Scott, Belluscone), il suo sodale di un tempo passa dal grottesco del film precedente al cinema barzelletta: in un'ambientazione fuori dallo spazio e dal tempo, la trama si affastella su una serie di situazioni rabberciate che fanno rimpiangere il cinema di Boldi e De Sica (d'altronde basta guardare i suoi complici in fase di sceneggiatura per spiegare il livello: Alessandra Acciai, Massimo Gaudioso e Miriam Rizzo). Non bastasse, gli attori sembrando recitare senza guida, Castellitto non è mai stato tanto sopra le righe, Papaleo ha la solita espressione beota e le uniche cose decenti - in un plot narrativo insulso e sconclusionato, mai avvincente, che restituisce la sensazione di un film che non riesce a decollare - sono le animazioni sui titoli di testa, in stile anni '60, e la direzione della fotografia dello stesso Ciprì: l'unico ruolo che farebbe bene a conservare al cinema (vedi Tano da morire, Vincere, Alì ha gli occhi azzurri e La trattativa).
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