Regia di Daniele Ciprì vedi scheda film
Anche questa volta (non) è stato il figlio: Armando, 27 anni di carcere scontati da innocente, non ha premuto il grilletto, ma ha pagato la pena che spettava a una persona cara. Uscito di prigione è solo con un cane, finché non suscita l’interesse di un avvocato misantropo e truffatore, per il quale riaprire il suo caso, e fargli avere il giusto risarcimento, diventa una sfida in cui cullare il proprio ego. Ciprì, al secondo lungometraggio in solitaria, riparte da un impasse giudiziario asciugando il grottesco dell’opera precedente in farsa comica: una metropoli senza nome né epoca, costumi vintage e ambientazione favoleggiante, corpi attoriali trattati da regia e montaggio sonoro come figurine cartoonesche.
Una commedia all’italiana fuori dal tempo e dall’attualità, girata come se fossimo ancora negli anni 60, con un immaginario (abiti, automobili, telefoni) da quel decennio prelevato, un Castellitto mattatore e segmenti animati anch’essi di sapore sessantesco. L’italica arte di arrangiarsi e il gusto della truffa; gag triviali col finto invalido; un finale in apparenza lieto che in realtà esalta la mediocrità e, come già in È stato il figlio, non salva l’anima di nessuno. Ciprì pare dichiarare la resa di fronte all’Italia di oggi: non raccontabile, non rappresentabile. Il suo è un cinema che non tenta più di restituire il grottesco del reale, ma lo rifiuta in blocco, chiude gli occhi e guarda altrove (indietro?): una favola senza morale, una commedia senza risate, un intrattenimento consapevolmente fallito.
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