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Exodus: Dei e Re

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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La recensione su Exodus: Dei e Re

di amandagriss
8 stelle

 

   "Io lo so che non sono solo

    anche quando sono solo,

   io lo so che non sono solo"

 

 

Cosa dire di Exodus.

Dopo poco più di 50 anni ritorna a scorrere sul grande schermo la titanica traversata degli schiavi ebrei dalla matrigna tirannica terra d’Egitto alla terra (creduta) promessa. L’operazione rinverdisce l’episodio biblico e nel suo aggiornare rivedere e correggere non manca di creare agganci col futuro prossimo venturo/venuto di un popolo destinato a subire ulteriori, peggiori se non medesimi trattamenti, confermando e rafforzando il concetto alla base dell’eterno inarrestabile fluire degli eventi: i terribili/temibili, inevitabili corsi e ricorsi storici.

È una pellicola che ha il sapore del kolossal, e la regia di Ridley Scott -agile, fluida, di grande respiro, attenta ai dettagli incastonati minuziosamente nella maestosità di ogni singola inquadratura, impreziosita da una stereoscopia che fa dignitosamente la sua parte- é forse l’unica oggi a poter rappresentare, esaltare senza mai strafare, tener testa senza aver nulla da invidiare al monumentale, epocale I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille.

Stavolta, però, si è pensato di mantenere una maggiore aderenza alla verità storica, di condurre la narrazione a misura d’uomo e mettere da parte i sontuosi, ridondanti e frastornanti toni epici del predecessore, quella caratterizzazione alquanto stereotipata dei buoni e dei cattivi, quella assoluta certezza di essere e persistere nel giusto (da ambo le parti), quella cieca determinazione che non ammette esitazioni, che non chiama in causa, giammai, alcun sentore di perplessità.

Di riporre quella sicurezza priva di zone d’ombra, che rende il passo dei fuggitivi fermo e deciso, che fa di Mosé un essere trasfigurato, accigliato detentore di tutte le risposte che il ventre di questa terra custodisce, un infallibile e imperturbabile testa d'ariete a sfondare ostacoli di ogni sorta, una roccia di granito che mai si scalfisce. E mai si volta indietro.

Un super uomo, retto, saggio, buono e giusto.

Il nostro Mosé è prima di ogni cosa un essere umano, un giovane e valoroso soldato, pragmatico e poco incline alle rivelazioni ‘esoteriche’ del veggente di corte, che ama ed è fedele alla famiglia dei faraoni con cui è cresciuto e si è formato.

È un condottiero che in battaglia dà il meglio di sé, difende i propri uomini, salva senza esitazione chi si trova seriamente in pericolo.

Mosè è un’anima divisa in due, quello che un tempo era e quello che (conosciute le sue reali origini) adesso è.

È divorato dal dubbio, l’incertezza soffoca il suo petto, affolla la sua mente e dà voce ai suoi pensieri in subbuglio;

cerca risposte, ascolta, sa intimamente di dover credere. Forse crede davvero.

La fede. È questo l’elemento cardine della pellicola di Scott, che più volte, nei momenti cruciali del racconto (le 7 piaghe, l’attraversata del mar rosso, il rapporto con la donna che sposa) si rende manifesta in tutta la sua struggente imperfezione.

Essa non è l’incrollabile convinzione di un fanatico, è piuttosto un cruccio, un sentire inspiegabile, impossibile da descrivere a parole; è un credere che scricchiola e vacilla perché la fede non annulla la volontà, perché, nonostante i segni tangibili e inconfutabili della presenza divina, la fede lascia spazio alla scelta individuale. Al libero arbitrio.

Il film rappresenta Dio attraverso la figura di un bambino, come a dire che l’uomo al suo cospetto deve farsi umile, abbassare il capo, inginocchiarsi per poter parlar con lui guardandolo negli occhi. E ritornare fanciullo, riprendere a colloquiare con la parte più autentica e genuina di sé, purificarsi, divenire un povero di spirito a cui il regno dei cieli non verrà negato.

E anche per esprimere quanto la fede, appena germogliata, sia da nutrire, curare, preservare così da farla crescere, renderla solida, forte, invincibile alle tempeste della vita.

 

 

Interessante notare come alcuni lavori realizzati negli ultimi tempi, per quanto sembrino in apparenza diversi ed inconciliabili, posseggano, invero, dei punti in comune e siano legati da un invisibile ma spesso filo rosso che tanto raccontano dei nostri strani giorni.

Il generale Mosé è il navy seal Chris Kyle dell’ultimo Eastwood ma è anche l’astronauta Cooper di Interstellar, e persino l’ex funzionario dell’ONU Gerry Lane di War World Z : incoscienti, pazzi visionari o solo semplicemente uomini tra gli uomini, il cui talento o specialità viene impiegato per imponenti missioni di salvezza.

Eroi o martiri, di certo prescelti, che il mondo (di finzione e non) individua come necessari, per mezzo dei quali poter dirsi e sentirsi ancora vivo, per mezzo dei quali poter tenersi ancora stretta la speranza.

Sono individui che portano fino in fondo e sulle proprie larghe spalle il peso e le conseguenze delle loro decisioni. Delle loro gesta.

Non senza indugio, non senza lasciarsi dietro di sé qualcosa,

non senza palpiti del cuore,

non senza paura, sconforto, disperazione.

Non senza dolore.

Il personaggio di questo nuovo commovente Mosé, ricco di spessore come mai ci saremmo aspettati, si addice splendidamente all’eclettismo e alle corde di un attore (un indovinato Christian Bale) che continua a mettersi alla prova incamminandosi su strade solo apparentemente facili e battute (come in questo caso), il quale, affidandosi ad un raffinato lavoro di mimica facciale, riesce ad illuminare il suo volto ed i suoi occhi di tutte le emozioni umanamente possibili.

Sicuramente da vedere.

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