Regia di Alessandro Blasetti vedi scheda film
A me sembra che da Ettore Fieramosca a Simon Bolivar il passo sia francamente lungo. È vero che tra l'uno e l'altro film sono passati trent'anni e una guerra mondiale, ma si tratta di esaltare in un caso un emblema del nazionalismo (italiano, anche se Fieramosca combatteva al soldo degli Spagnoli) e nell'altro un simbolo dell'internazionalismo (sudamericano). Evidentemente è prerogativa di certi registi fiutare da che parte tira il vento e di conseguenza iniziare a vogare in quella direzione.
In questo caso Blasetti sembra voler assecondare le tendenze trotzkiste che avevano preso nuova linfa con il Sessantotto. Non è certo casuale la scritta finale che vede prima comparire sullo schermo l'anno in cui si conclusero le vicende narrate nel film - il 1825 - e poi l'anno in cui quella storia viene raccontata sullo schermo, cioè il 1970.
Qualsiasi cosa volesse dire Blasetti, il suo film è un pastrocchio tale che sarebbe stato meglio che non fosse mai stato girato, magari lasciando il compito a qualche cineasta andino e mantenendo la fama del regista romano legata alle sue opere dell'anteguerra.
Se nei film blasettiani degli anni Trenta si avvertiva una singolare comunanza, quanto meno figurativa, con il cinema di Ejzenstejn, qui le uniche similitudini sono ravvisabili con le opere d'ispirazione trotzkista/leninista di fine anni Sessanta - inizio anni Settanta di registi come Damiani, Petroni, Sergio Corbucci e Leone (Quien sabe?, Tepepa, Vamos a matar compañeros, Giù la testa), ma con troppa enfasi e troppo poco cuore da parte di Blasetti.
Come spesso accade, infine, mal si conciliano la parte pubblica della narrazione e quella privata. A questo proposito, recita malissimo una parte scritta malissimo Rosanna Schiaffino, costretta in un ruolo assai stereotipato di pupa del capatáz.
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