Regia di Brian Desmond Hurst vedi scheda film
Per il solo fatto che è incentrato sulla rivolta dei Mau Mau contro gli inglesi, nel Kenya degli anni cinquanta, “Simba” è un film che merita di essere recuperato, anche per approfondire o studiare un argomento spinoso, rimosso, dai più sconosciuto, al cinema praticamente ignorato se si esclude “Qualcosa che vale” di Richard Brooks. La prospettiva scelta nel film, tratto da un romanzo di Anthony Perry (credo inedito in Italia) è quella di un giovane inglese, Alan Howard che raggiunge l’Africa per iniziare a lavorare come coltivatore nel ranch di proprietà del fratello David. All’aeroporto viene accolto da Mary Crawford con cui in passato ha tentato invano di iniziare un legame sentimentale, salvo poi essere respinto, perché reputato dalla ragazza immaturo. E proprio Mary è sorpresa del suo arrivo in Kenya e della sua decisione di lavorare con David, descritto da Adam come “serio, laborioso, tenace, l’opposto di quello che sono io.” Mary cerca di far capire a Adam che la situazione in Kenya è piuttosto travagliata e chi vive lì è ormai necessariamente a un bivio, costretto ad una scelta non facile, evidenziando, rammaricata e preoccupata, che “La via che si prende non sempre piace agli altri.” Arrivato a casa di David, Adam constata subito di persona quanto le parole di Mary siano vere. Scopre infatti con sgomento e raccapriccio che il fratello è stato ucciso dai Mau Mau, in rivolta contro i colonialisti inglesi. Parlando con l’ispettore Drummond che lo accoglie sul luogo del delitto, Adam si domanda come sia stato possibile tutto questo: “Ma se li amava, era buono con loro. Si fidava di loro!” “Questo è il guaio: troppo!” è la dura replica di Drummond. Su un muro compare la scritta “SIMBA”: “Per gli indigeni significa leone. Deve essere il nome del loro capo. Ci tengono a queste cose.” spiega Drummond che consiglia a Adam di passare la notte a casa di Mary. Anche qui Adam cerca conforto al suo dolore e spiegazioni all’omicidio di David chiedendo: “Perché l’hanno ucciso?” Brutale è la risposta di Mr. Crawford: “Perché? Non esistono perché per un negro, così come non esistono per un bambino ottuso. Sia l’uno che l’altro agiscono per istinto!” Mr Crawford non vede nemmeno possibilità di recupero per una pacifica convivenza: “Per quanti sforzi tu faccia con questa gentaglia, non saprai mai come la pensano!” Mary non condivide le idee sbrigative e piuttosto rozze del padre perché ritiene che “Se ciascuno di noi si fosse comportato come David non ci sarebbero negri scontenti e i Mau Mau non esisterebbero nemmeno!” Suo padre però non usa giri di parole, consapevole che anche i “boys” che lavorano per loro e che sono cresciuti con loro potrebbero tradirli da un giorno all’altro: “60 anni fa quando giunsero qui i primi bianchi, i negri erano poco meglio delle scimmie. Come volete che siano degli esseri adulti e coscienti? Il guaio è che noi abbiamo dato ai negri dei giocattoli inadatti: idee di autogoverno, di nazionalismo. Ora i Mau Mau se ne servono e sono diventati pericolosi, troppo pericolosi.” E invita a “non attribuire a questa gente delle capacità di raziocinio che non posseggono.”, facendo presente a Adam che “tu faresti meglio a mettertelo in testa fin da ora.” Nonostante la complessa situazione e l’altissimo rischio personale (le aggressioni dei Mau Mau sono sempre più frequenti e violentissime, colpiscono in modo barbaro e senza distinzioni anche i neri che non vogliono collaborare con loro e preferiscono restare al servizio dei padroni bianchi), Alan decide di rimanere, ma il suo scetticismo e i suoi sospetti verso i locali sono molto forti, alimentati anche dalle rigide posizioni dell’ispettore Drummond: “Io sono un tipo alquanto diffidente: sto un po’ in guardia dagli indigeni istruiti!” Mary invece lo invita a seguire l’atteggiamento di fiducia e di comprensione del fratello verso i locali: per lei, infatti, non è possibile continuare a condannarsi reciprocamente, in un eterno clima di tensione, odio, crudeltà e terrore che non giova a nessuno. Mary, nonostante l’opposizione dei genitori, lavora come assistente presso l’ambulatorio diretto dal dottor Karanja, figlio del capo tribù locale e che a sua volta soffre per la sua condizione: “nessuno si fida interamente di me: per i bianchi io sono soltanto un nero un po’ diverso dagli altri e per la mia razza sono troppo amico dei bianchi.” Anche Adam rimane molto freddo, scortese e ostile verso Karanja. Quest’ultimo cerca di fargli capire che sarebbe meglio per lui andare via, troppo forte è il pericolo nei suoi confronti (ha già infatti ricevuto minacce molto dirette), ma non viene ascoltato. Quando la casa di Mary viene assalita dai Mau Mau che uccidono senza pietà il padre di Mary e feriscono gravemente la madre, Adam domanda, rabbioso e disperato, alla ragazza, a cui in precedenza, in un momento di intimità, aveva chiesto di sposarla: “Vuoi ancora fidarti di loro? Se ti illudi ancora che sono degli esseri umani va di là a vedere!” invitandola a osservare con i propri occhi come è stato ridotto suo padre. Karanja, esasperato da una situazione che non riesce più a sopportare, accusato da Drummond e Adam di essere complice dei Mau Mau e altresì consapevole che “a volte far niente è ancora peggio che agire, è più vile” farà un estremo tentativo di conciliazione con i ribelli pronti ad assaltare il ranch di Adam, convinto che “la maggior parte di loro agisce per esaltazione non per odio”, forse anche divorato dal rimorso che suo padre è Simba, il capo dei rivoltosi (“Mio padre li ha resi sordi alla verità!” dirà) ma soprattutto pensando alle nuove generazioni del suo popolo, ai suoi occhi rappresentate da Joshua, quell’indifeso bimbo di colore, la cui famiglia è stata sterminata proprio dai Mau Mau e che Adam ha amorevolmente preso sotto la sua protezione: “Forse noi non meritiamo la pace, ma lui non ha nessuna colpa!”
Sotto la veste del più classico ed appassionante film di avventura (ottima, per esempio, la lunga sequenza dell’inseguimento del capo tribù, notevole il martellante crescendo di tensione del finale), “Simba” (di produzione inglese) si sforza, per quanto possibile, di mantenere una posizione oggettiva ed equidistante, non sempre riuscendovi (all’epoca delle riprese, il 1955, il tema era ancora caldissimo e molto scomodo) ma ottenendo un risultato nel complesso onesto e a suo modo significativo. Se infatti da un lato non manca la descrizione, anche minuziosa mai comunque enfatica, sensazionalistica o compiaciuta delle violenze inumane ed efferate perpetrate dai Mau Mau (a partire dal secco, silenzioso e molto efficace incipit con un ribelle che “finisce”, con crudeltà e ferocia, servendosi di un machete, un bianco in fin di vita, fino allo spietato e barbaro assalto al ranch Crawford) dall’altro gli inglesi e le loro posizioni “dominanti” sono rappresentati in modo fin troppo timido e accondiscendente, dando quasi per scontata, ovvia e inevitabile l’opportunità e la giustizia del loro colonialismo (anche se, va riconosciuto, il personaggio del padre di Mary, con le sue affermazioni arroganti e grossolane, non fa proprio una bella figura ed è un rappresentante piuttosto emblematico del classico tracotante colonialista). Non sarebbe però corretto né generoso parlare di razzismo. In particolare, c’è una sequenza significativa, peraltro ancora di bruciante attualità per il duro confronto di posizioni contrastanti che mette in scena, che forse meglio di altre chiarisce le intenzioni di regista e sceneggiatore, ed è quella della riunione per il piano di difesa degli inglesi, dopo l’uccisione del fratello di Adam, in un clima sempre più infuocato e preoccupato. Se da un lato tra i partecipanti c’è chi non vede alternative tra il “far provare la collera di Dio”, divenendo spietato con gli indigeni “tanto da schiacciare i negri così che non rialzino più il capo” o l’abbandonare l’Africa, nonostante l’enorme e fruttuosa mole di attività economica avviata negli anni, lasciando da parte inutili e deleteri sentimentalismi, dall’altro c’è chi, come il dottor Hughes, partendo dal presupposto che “non siamo i soli, noi, ad avere interessi in questo paese” propone di imparare “a vivere fianco a fianco negri e bianchi e a creare così un mondo migliore insieme”, perché “non c’è altra strada per uscire. Dobbiamo usare le nostre teste non perderle!” Non mi sembra si tratti del più classico “un colpo al cerchio e uno alla botte”.E’ infatti apprezzabile questo tentativo da parte inglese, a situazione ancora ben lontana dall’essere risolta, di tentare di comprendere anche le ragioni degli “occupati”, alcuni dei quali, purtroppo, colpevoli di usare i mezzi peggiori e più biechi per raggiungere i loro obiettivi (gli inglesi poi non saranno da meno con la creazione, per i ribelli catturati, di campi di sterminio e internamento degni dei nazisti, esperienza praticata anche in Australia, come denuncia per esempio “La generazione rubata” di Noyce). Il film infatti evidenzia come non si debba escludere a priori la possibilità di ragionare e confrontarsi: non si ha necessariamente a che fare con bimbi ottusi, privi della capacità di raziocinio, ridotti a poco meglio delle scimmie, per usare le volgari parole di Crawford. In questo senso diventa centrale la figura del dottor Karanja, tormentato dalla sua travagliata condizione di anima divisa in due, tanto per la diffidenza prevenuta e cocciuta nei suoi confronti degli inglesi solo perché è nero quanto per il distacco della e dalla sua gente che vede in lui solo un complice dei bianchi. Karanja spera di trovare una via d’uscita a quell’inutile sterminio, prova a dare il suo contributo, non rinuncia a rinfacciare ai bianchi la loro presunzione e prepotenza (la sequenza in cui mostra a Adam, che lo accusa di essere un Mau Mau, le sue cicatrici urlandogli esasperato “Ho studiato per salvare la vita degli uomini non per distruggerla.”) ma nemmeno a confrontarsi con il suo popolo, evidenziandone gli sbagli, spingendoli ad abbandonare Simba che ha fatto in modo che il diavolo si nascondesse tra la sua gente, nutrendoli di odio e di disprezzo e portandoli a fare del male anche a chi, come David, si è sforzato di capire le loro ragioni e ha tentato di venire loro incontro. Se la vicenda è vissuta con gli occhi di Adam (il già ottimo ed intenso Dirk Bogarde), inizialmente animato solo da rabbia, disprezzo e rancore verso gli indigeni, come la maggior parte degli inglesi, anche perché direttamente coinvolto dall’omicidio del fratello, poi però sempre più convinto, grazie alla paziente e comprensiva vicinanza di Mary e alla conoscenza più approfondita di Karanja, che una visione unidirezionale e faziosa non giovi a nessuno, è proprio Karanja il personaggio chiave, quello che più di tutti cerca di facilitare un confronto, mettendo in risalto gli errori e le inadeguatezze degli uni e degli altri, trovando in questo un appoggio sempre più sostenuto ed appassionato da parte di Mary tanto da dirle: “E’ un esempio per la mia gente.”. Ed il fatto che il film si concluda sullo sguardo interrogativo e tenero di Joshua, il bimbo di colore “adottato” da Adam, vittima innocente di una guerra folle e senza senso, pietra da cui ripartire per costruire un mondo migliore (“Forse noi non meritiamo la pace, ma lui non ha nessuna colpa!” dirà in punto di morte Karanja) è un’ulteriore dimostrazione del fatto che le accuse di razzismo mosse al film a suo tempo sono forzate e ben poco credibili. E a conferma di ciò tornano utili anche le parole che Mary (la brava Virginia McKenna che tornerà 10 anni dopo in Africa con il più celebre “Nata libera”) rivolge al padre infuriato: “Se ciascuno di noi si fosse comportato come David non ci sarebbero negri scontenti e i Mau Mau non esisterebbero nemmeno!”. Forse è proprio questa la dura verità rispetto alla quale per troppo tempo sono stati resi sordi non solo i neri ma anche e soprattutto i bianchi, chiusi a riccio nelle loro comode, arbitrarie e discutibili certezze. Un’opera coraggiosa, interessante (anche nella descrizione particolareggiata di alcuni rituali Mau Mau, come il giuramento o la cerimonia di iniziazione, l’arruolamento dei seguaci, e di diverse tradizioni africane, penso all’episodio in cui l’ispettore Drummond, durante l’inseguimento di Simba, preferisce uccidere il leone che sta per attaccare Simba lasciando fuggire il capo tribù nella macchia, per evitare che poi i soldati Mau Mau pensino che lo spirito del loro capo sia trasmigrato nel leone il cui ruggito in futuro sarebbe per loro come l’invito alla rivolta e alla lotta fatto direttamente dal capo), capace di coniugare degnamente l’impegno con un affascinante e vigoroso spettacolo e rappresentare con lucida credibilità un rovente stato di tensione e di scontro sempre sull’orlo dell’esplosione, evitando, anche nella rappresentazione del soffocante paesaggio africano, il tradizionale effetto cartolina (merito anche della preziosa fotografia di Geoffrey Unsworth, poi due volte premio Oscar per le luci di “Cabaret” e “Tess”). Candidato ai Bafta nel 1956 come miglior film e migliore sceneggiatura (di John Baines).
Voto: 7
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