Regia di Jonathan Demme vedi scheda film
"Jonathan Demme ha scelto la strada peggiore per adattare al cinema l'intensità terrorizzante del romanzo di Thomas Harris: mostra e non mostra, s'azzarda e si ritira. La via del compromesso non riesce a rovinare la bellissima storia, ma rende il film malriuscito, a tratti ridicolo." (Lietta Tornabuoni per La Stampa).
"Si deve comunque proprio a Demme se il film non è del tutto da buttar via perché, nonostante i sanguinosi grovigli certi climi sono evocati con le giuste tensioni." (Gian Luigi Rondi per Il Tempo).
"Da una superproduzione con tutti i crismi di lusso, esce invece una traduzione letterale del libro, con tutte le sue incredibilità e le sue rozzezze ben confezionate dalla perfezione assoluta della regia, del montaggio, della fotografia, e dall'interpretazione di due ottimi attori impegnati a farci accettare una schermaglia che ha dell'incredibile." (Irene Bignardi per La Repubblica).
Tratto dal romanzo di Thomas Harris del 1988, The Silence of the Lambs uscì in America esattamente il giorno di San Valentino del 1991.
L’anteprima europea fu invece durante il Festival di Berlino, quell’anno vinto dal nostro Marco Ferreri con La casa del sorriso, e in Italia, quasi in contemporanea, in anteprima per la stampa all’Anica il 12 aprile e dai nostri critici (vedi sopra) giunsero giudizi tiepidi, cauti o decisamente negativi (della serie: chi ci crede ancora?) che vennero invece completamente ribaltati dall’immediato entusiasmo del pubblico per quel che resta, ad oggi, uno dei più grandi capolavori del genere, forse anche brutale ma con una raffinata attenzione alle dinamiche psicologiche, tra morale e giustizia e sull’attrazione dell’uomo verso il male e/o l’indicibile sofferenza umana, e a cui segue la gloria trionfale della Notte degli Oscar e la vittoria dei cosiddetti Big Five, i maggiori 5 Oscar della competizione: Miglior Film (primo di genere horror a riuscirci), Miglior regia (Jonathan Demme), Miglior Sceneggiatura (Ted Tally), Miglior attore & attrice protagonista (Anthony Hopkins & Jodie Foster).
Jonatham Demme arrivò alla regia dopo che il progetto era stato brevemente preso in considerazione da David Lynch, a cui va dato il merito di aver consigliato Anthony Hopkins per il ruolo del protagonista avendolo già diretto, ottenendone una performance eccezionale, in The Elephant Man, e si era formato alla factory del re dei B-Movies Roger Corman per cui ha diretto i suoi primi film (Femmine in gabbia, Crazy Mama).
All’epoca 46 anni, Demme sa quindi come affrontare certi argomenti con la giusta dose di violenza ma anche con una certa ironia, dettata anche da una carriera dedicata soprattutto alla musica e alla commedia, a cui deve i suoi maggiori successi (Qualcosa di travolgente e Una vedova allegra...ma non troppo).
Demme realizza con Il silenzio degli innocenti un film formalmente impeccabile.
Una regia puntigliosa e minimalista capace di addentrarsi, grazie ai continui primi piani sui volti e sui corpi degli attori, nell’anima dei protagonisti, una sceneggiatura perfetta con la tensione che risalta costantemente per tutta la durata della pellicola, una fotografia gotica (di Tak Fujimoto) distaccata e dai colori estremamente freddi che crea una gamma di sfumature di riflessi purpurei e ombre a incorniciare un’oscurità che non lascia mai lo spettatore, nemmeno in piena luce del giorno, e una musica, opera di Howard Shore conosciuto dal regista al Saturday Night Live, a creare un’atmosfera inquietante continua ed esasperante.
Ma la forza dell’opera di Demme (e quindi dell’opera originale di Harris) consiste soprattutto nell’analisi di un rapporto squilibrato e malato tra la giovane e inesperta Detective dellFBI e il Mostro imprigionato tra le grigie mura di una fortezza, in una (quasi) favola gotica nel quale la fragile donzella in pericolo si getta volontariamente, quasi in un gesto sacrificale, tra le fauci del drago (e da cui, a sorpresa, invece di esserne divorata ne esce fuori corroborata, molto più forte) in un confronto impari tra opposti, tra sano e malato, e che gioca nettamente in favore, per fascinazione, proprio di quest’ultimo, riscrivendone le caratteristiche e determinando una svolta che, al cinema, non accadeva più dai tempi di Psycho e di Norman Bates.
E se in Norman era la sua fragilità, abbinata alla sua follia, a terrorizzare in Hannibal invece è proprio la sua mancanza di empatia, abbinata alla sua lucida follia, ad ammaliare lo spettatore.
Anche l’espediente di una soggettiva inversa, ossia di mostrare il guardato e solo dopo colei che lo sta guardando (ovvero Sterling), permette da una parte di far calare lo spettatore nell’ottica della protagonista, di vedere non solo “cosa” vede ma anche “come” lo vede, ma dall’altra sottolinea anche l’importanza scopica proprio della ricerca (desideriamo quello che vediamo) come anche l’importanza di ogni piccolo dettaglio (la lampada cinese, i coleotteri, la “dama con l’agnellino” o gli anagrammi di Lecter, i "fallici" occhiali notturni di Gumb) che assumono una valenza simbolica molto più profonda.
Con uno stile glaciale, molto più attento all’orrore interiore dei suoi protagonisti che non a quello reale, e un rigore geometrico straordinario Demme ci porta nei meandri più oscuri della psiche umana e se i due protagonisti sembrano rappresentare lo scontro tra il Bene e il Male, e in cui ognuno rappresenta l’antitesi dell’altro, la morbosa attrazione reciproca che sembra intercorrere tra i due ci mostra una realtà nella quale la contrapposizione tra questi due estremi non è più poi cosa marcata come si vorrebbe.
Anthony Hopkins giunge al ruolo di protagonista dopo oltre trent’anni di carriera al cinema (Audery Rose, Magic, The Elephant Man, Il Bounty, 84 Charing Cross Road) come anche a teatro (Shakespeare e Tolstoj) e in televisione, senza però riuscire a trovare quel ruolo capace di trasformarlo in una star internazionale, bloccato in ruoli da caratterista o senza la possibilità comunque di esprimersi completamente.
Con Il silenzio degli innocenti Hopkins può invece deflagrare in tutto il suo talento.
Hopkins domina infatti la scena (ottimo anche il doppiaggio italiano di Dario Penne) ma la sua (invadente) presenza é palpabile anche in sua assenza (nel film compare infatti solo per 24 minuti) per una prestazione che si può definire soltanto memorabile.
Dopo la rinuncia di Michelle Pfeiffer, prima scelta della produzione come protagonista femminile ma che abbandonò il film perché trovava immorale il finale della pellicola, il ruolo di Clarice Sterling fu affidato a Jodie Foster ma questi dovette convincere Demme che inizialmente non la trovava adatta alla parta ma già dopo il primo incontro si convinse di avere invece di fronte proprio l’attrice giusta.
Foster era ancora trentenne ma aveva già una lunga carriere alle spalle nel cinema iniziata quando era ancora bambina e con all’attivo pellicole come Paper Moon, Alice non abita più qui e, soprattutto, Taxi Driver di Martin Scorsese oltre che già vincitrice dell’Oscar con Sotto Accusa tanto che Hopkins confessò che sul set ne era un pò intimidito ma si rivela la sua partner perfetta.
Ted Levine interpretò invece Bufalo Bill, lo scuoiatore di ragazze Jame Gumb. Per creare il personaggio Harris si ispirò a diversi serial killer presi dalla cronaca reale, da Ted Bundy che fingeva di essere infortunato per catturare le ragazze a Ed Gein che si faceva dei paralumi usando la pelle umana o Gary Heidnik che teneva le sue vittime in un pozzo in cantina.
Nel cast figurano anche molti degli amici del regista Demme a cominciare dal suo mentore Roger Corman nel ruolo del capo dell’FBI o Charles Napier, attore feticcio del regista e anche lui proveniente dalla factory di Corman.
VOTO: 9
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