Regia di Alice Rohrwacher vedi scheda film
Molto bella l’immagine delle api che escono dalla bocca della ragazza. Forse la più bella del film e rappresentativa di un affiatamento e di un amore dell’uomo verso insetti altrettanto laboriosi e per questo meritevoli di attenzione e perfino di un contatto tra i più carnali.
L’autrice sembra volerci stupire nell’aprirci le porte di un mondo a noi del tutto sconosciuto: quello degli apicoltori. E lo fa con la puntualità e lo spirito di osservazione di chi quel mondo lo ha vissuto e non solo visitato. La conoscenza delle regole ferree a cui sottostanno uomini e insetti, dei doveri, dei sacrifici, unici ingredienti per far funzionare un’economia ancestrale che ancora produce sussistenza e cultura, è il filo conduttore di una storia da piccolo mondo antico. Ma la Rohrwacher vorrebbe andare oltre: quel mondo è minacciato dalla contaminazione, forse quella stessa che ha distrutto le minoranze etniche e quelle economiche; che ha avviato la comunità mondiale verso l’appiattimento della globalizzazione e la scomparsa delle culture minoritarie. Ma la passione con cui sembra voler affrontare quest’argomento ben presto si spegne e resta un obiettivo solo annunciato. La pellicola si divide su due fronti: quello descrittivo, che sa di cinema realista ma con l’ambientazione, i ritmi, i toni dei dialoghi, così come la voce cruda e secca dei protagonisti, che ci ricorda “L’albero degli zoccoli” di Olmi”, alleggerito dalla dolcezza dei bambini e dalle esplorazioni sentimentali della giovinetta; ed un secondo fronte, nel quale si innesta in modo leggero ed a volte poco convincente la dinamica delle minacce a cui quel mondo è sottoposto. Così, tra alberi e broccoli, appare, poco credibile, una troupe televisiva che, attraverso l’immagine di una star con le sembianze di una fata turchina -che la Bellucci contribuisce a rendere inconsistente, più che evanescente (altro che ciliegina sulla torta come qualcuno ha autoreferenziatamente asserito)- adesca le illusioni della giovane protagonista -vero ed unico motore insieme al padre di quella attività- e la spinge verso pericolosi desideri di evasione che potrebbero compromettere l’equilibrio di quel mondo. Poco per volta emerge, così, una posizione ambigua dell’autrice e lo spettatore finisce per non capire da che parte sta. Così, nel ricalcare i modi grossolani e la voce scorbutica ed autoritaria, la Rohrwacher finisce per indicare nel padre della giovane l’odioso stereotipo del “padre padrone”. Conferisce ai personaggi femminili (moglie e cognata) lo status di “suffragette” in lotta per l’affermazione di un mondo moderno-piccolo-borghese del quale pare proprio che non si possa fare a meno. Un ragazzo affidato temporaneamente alla famiglia, finisce anch’egli per rappresentare un elemento di disturbo per l’equilibrio di quella comunità, perché la stessa si divide tra la posizione oltranzista -che vede nella produzione di miele l’unico compito a cui provvedere- e quella che, al contrario, vuole privilegiare l’aspetto umano e sentimentale che quell’affido dovrebbe rappresentare. Da qui a voler distruggere questa piccola comunità che la stessa regista ci ha invitato ad esplorare con amore, forse per omaggio alle proprie origini, il passo è breve. In cuor suo lo spettatore trama contro questo mondo e le sue regole e diventa egli stesso simbolo di quella contaminazione dalla quale sembrava che esso dovesse essere protetto.
Ciò malgrado, resta un film da vedere e che si farà ricordare. Forse, non tanto per quel che dice di quel mondo, ma per quello che vorrebbe dire e che non dice o che forse non sa dire. Lo spunto però è forte e le descrizioni che ci fornisce l’autrice sono ricche di inviti a riflettere.
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