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Jersey Boys

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Jersey Boys

di scapigliato
9 stelle

Udite udite: Jersey boys non è un musical. Può esserlo la versione di Broadway, ma non il film di Clint Eastwood. In un musical, per definizione, i dialoghi sono sostituiti dal cantato e dalle coreografie di ballo. Nella pellicola diretta dal Maestro non c’è nulla di tutto questo se non alla fine, sui titoli di coda, quando ogni personaggio del film partecipa alla felice rassegna di chiusura della vicenda cantando e ballando come se non ci fosse un domani. Per il resto, la storia dei ragazzi del Jersey è scandita da canzoni vere e proprie eseguite all’interno della diegesi come parte di essa. È un Clint Eastwood virato “brannan” quello che porta sullo schermo l’ascesa, il tramonto e la rinascita di Frankie Valli e dei Four Seasons. Da Sherry fino a Can’t take my eyes off you – la poi I love you baby di Gloria Gaynor, inserita nella sua versione originale ne Il Cacciatore (1978) proprio con Christopher Walken, corsi e ricorsi – passando per pezzi celebri come Big girls don’t cry e Walk like a man, Eastwood celebra il sogno americano da una posizione imperfetta. Il punto di vista non è mai univoco, e la polifonia di voci e racconti permette di creare una visione frammentata e nostalgica dell’intera vicenda, da cui poi è facile il passo verso la leggenda, il ricordo, la memoria e le lacrime. La potenza del Eastwood touch è proprio questa: la limpidezza della coreografia scenica unitamente alla semplicità di linguaggio cinematografico. Una grammatica tutta tesa alla semplificazione e alla pulizia dello sguardo, operando sul profilmico con essenzialità poetica, permettendo così allo sguardo registico e in seguito a quello spettatoriale di fissarsi esclusivamente sul contenuto del film attraverso la sua forma artistica. Questa non è solo una strategia narrativa, ma è innanzitutto un aspetto fondamentale della sua poetica. L’essenzialità della messa in scena, la placida composizione delle scene e dei movimenti e della presenza di attori, mezzi, oggetti, animali. In Eastwood tutto ha il suo posto. Nulla è posticcio, nulla artificioso. C’è un amore disarmante per l’essere umano e per tutto il suo vissuto. La zampata più recente del grande attore americano abbraccia, contro ogni previsione, il mondo proletario e lo sbalza tra le stelle, senza edulcorarlo, senza parafrasare spielberghianamente l’assunto per cui il successo è segno distintivo di una condizione sociale wasp riconosciuta e legittimata. Per Eastwood l’uomo è uomo perché è tale. Non importa da dove arrivi o dove vada. L’individuo per Eastwood è un italiano di seconda generazione che ha un grande talento personale riesce a raggiungere il successo. Successo che non è tutto lustrini, ma anche rancore, solitudine, tradimento. E l’uomo si percepisce come tale quando si guarda dall’esterno; quando non si vede più come una stella, come un vip, ma come un uomo a cui la vita sta togliendo ogni soddisfazione. Clint Eastwood ha rispetto per i suoi personaggi tanto da tenerli ben ancorati alla realtà – si veda anche il dittico su Iwo Jima. Clint Eastwood racconta con moltissima leggerezza una parabola esistenziale fatta più di bassi che di alti, ma non perde mai di vista il buon umore e non abbandona mai i suoi personaggi alla tragedia personale. Un film spassoso e commovente per la sua semplicità. Difficile pure parlare di capolavoro visto che è così facile percepirne la perfezione.

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