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The Reach - Caccia all'uomo

Regia di Jean-Baptiste Léonetti vedi scheda film

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La recensione su The Reach - Caccia all'uomo

di scapigliato
8 stelle

Ingiustamente bistrattato dalla critica, Beyond the Reach, del quasi esordiente Jean Baptiste Léonetti, è un guilty pleasure che della credibilità non sa cosa farsene e punta tutto sulla primitiva opposizione “uomo contro uomo”: lo speculatore finanziario John Madec, interpretato da Michael Douglas dà la caccia alla giovane guida interpretata da Jeremy Irvine nello spettacolare paesaggio della Monument Valley. Beyond the Reach è così un western contemporaneo che adotta l’intreccio del manhunting movie e va ad inserirsi in una lista di titoli che hanno fatto della caccia all’uomo un paradigma mitico plurinterpretabile: La partita pericolosa (1932), La preda nuda (1965), Il giorno dei lunghi fucili (1971), Chato (1972), Caccia Selvaggia (1981), The Hunted (2003), Rottweiler (2004), Seraphim Falls (2006), Essential Killing (2010) e The Most Dangerous Game (2015), remake del capostipite.

Non è un caso che film a manhunting plot siano quasi tutti dei western. La natura selvaggia, la minimalità elementale, l’intrico o il desertico come paesaggi simbolici dei caratteri dei personaggi, il fatalismo, la sottile linea omoerotica morbosa e sadista, l’orizzontalità del sistema dei valori come dello scenario naturale, sfoggio e sfogo di opposizioni basiche quali civiltà/natura, bene/male, preda/predatore e l’immancabile duello finale. Inoltre, del western il film di Léonetti possiede diverse sottotracce non indifferenti ai fini di una comprensione reale della storia che è tratta, va ricordato, da Deathwatch, romanzo scritto da Robb White nel 1973 e vincitore del Edgar Allan Poe Award. Come ricorda Leslie Fiedler, nella cultura americana lo spirito del pellerossa ritorna regolarmente, soprattutto nei western, inteso come uno dei quattro generi cardinali della letteratura americana insieme al northern, al southern e al eastern.

Già dalla rielaborazione del titolo possiamo notare delle intenzioni tematiche. L’origine Deathwatch significa “veglia funebre”, ed è dopotutto quello che fa Michael Douglas con il giovane Jeremy Irvine. Beyond the Reach invece, significa “fuori portata” e sottolinea anche la distanza morale ed etica, nonché sociale e storica tra i due personaggi. Douglas è un arrogante milionario vestito da cowboy che va a caccia di un maschio adulto di bighorn, una delle icone del grande paese – il Bighorn in cui venne sconfitto Custer - e per di più carico di una notevole simbologia virile: il capro maschio, alfa, potente e guerriero le cui corna i due protagonista sentono cozzare a notte fonda contro quelle di altri giovani maschi del branco; anziano, superattrezzato, uomo-gadget, il John Madec di Douglas compra tutto con il denaro, anche la vita di un uomo: non è il senex saggio di tante tradizioni, piuttosto è l’incarnazione del vecchio laido che cerca spose giovani in tante commedie europee del XVII e XVIII secolo. Di contro, Jeremy Irvine è un giovane squattrinato, nato e cresciuto nella wilderness neomessicana con sani principi alle spalle e buoni propositi per il futuro: università e famiglia. Non solo è giovane e bello, ma le sue caratteristiche ce lo inquadrano come il Selvatico, l’homo salvaticus spesso accostato al demonio e al male in epoca medioevale per poi ritornare in accezione positiva come figura anticonsumistica e antagonista. Il Selvatico per definizione nell’immaginario americano è quell’indiano a cui la terra è stata strappata nel sangue. Un ulteriore indizio, un po’ forzato, ma perché non leggero come una felice coincidenza: il ragazzo durante la sua fuga mezzo nudo proprio come un indiano si scotta e si arrossa così tanto da trasformarsi davvero in pellerossa. Il gioco è fatto: da un lato abbiamo il bianco ranchero pieno di soldi che comanda il mondo con i dollari e le armi, dall’altro l’indiano che vive nella natura selvaggia e difende la sua terra e la sua gente.

Essendo un western contemporaneo, Beyond the Reach, oltre a un manhunting movie è oggettivamente un wilderness drama, che è poi l’ispirazione poetica alla base del western puro. Uno degli aspetti più interessanti di un wilderness drama è la riduzione ai minimi termini degli attanti di una narrazione. In Beyond the Reach le funzioni si limitano a tre: soggetto, oggetto e oppositore. L’oggetto-preda fugge verso un oggetto-meta, la salvezza, ma anche la civiltà e la giustizia, perseguitato da un oppositore-predatore che ne ostacolerà la corsa. L’aiutante se c’è è indiretto – il vecchio mountain man, il cui nascondiglio e i vestiti aiuteranno la preda – oppure arriva solo alla fine senza influenzare l’azione – lo sceriffo del paese che libera il giovane, piuttosto che la sua ragazza, decisiva nel conflitto finale; mentre se destinante e destinatario ci sono ricopro il loro ruolo canonicamente, lasciando l’intera narrazione ai due attanti principali: preda e predatore.

Il capitalista e speculatore senza etica dà la caccia al proletario, allo studente, allo squattrinato dopo averlo corrotto come una marchetta. La polarizzazione dei due principali caratteri in campo viene messa in chiaro fin dalle battute iniziali. Michael Douglas si sbrana fin da subito la “pupa” Irvine, fin troppo bellino per il ruolo del salvaticus. Nella loro relazionalità si intravede immediatamente come la voglia di dominio del capitalista non si fermi al denaro o al trofeo impossibile, visto che può cacciare il bighorn solo perché ha corrotto lo sceriffo, ma va oltre. Non si prende solo la coscienza del ragazzo, ne vuole anche il corpo. Il film dopotutto si apre con Irvine che corre in mutande nel deserto e poco dopo si risveglia dall’incubo sempre mezzo nudo. Successivamente, a fattaccio compiuto, il vecchio laido decide di far fuori l’imberbe e lo costringe a spogliarsi e a correre sotto il solo di mezzogiorno. Piedi, schiena, faccia e l’intera pelle si disfano a sole e contro la terra dura e pietrosa del deserto.

Il sadismo del Madec di Douglas poteva essere maggiore. Innanzitutto avrebbe dovuto spogliare completamente Irvine come William Miller in Rottweiler e Cornel Wilde in La preda nuda. Il sadismo si sarebbe così sporcato di gender e avrebbe messo altra carne al fuoco senza più lasciare ai margini del contenuto narrativo l’attrazione omoerotica di Douglas per Irvine. In secondo luogo, il film avrebbe potuto dotarsi di una serie di truculenze, quasi degli strascichi di torture porn, con cui insistere sul piano espressivo con la corruzione e la morte per via sadica del “corpo” proletario.

Il film è comunque una felice sorpresa. Non solo Douglas è perfettamente luciferino anche quando non è richiesto e il manhunting plot è sempre avvincente, ma è la regia ad essere un piacere per lo sguardo. Il film è fortemente influenzato dall’estetica eighties. Belle inquadrature piatte dove le linee naturali e quelle artificiali compongo quadri dal piacere geometrico; la fotografia indora i volti dei protagonisti e con il viso di Douglas ci gioca così bene da fonderlo con le pietre e la terra ostile del paesaggio desertico; montaggio, zoomate e tagli delle inquadrature fanno il resto.

La grammatica usata da Léonetti ricorda il Russell Mulcahy di Razorback (1984) e il Robert Harmon di The Hitcher (1986), peccato per qualche difetto narrativo e strutturale come l'assenza di un vero sadismo sul giovane corpo della guida e i troppi finali. Io avrei fatto delle scelte diverse, chiudendo la storia immediatamente dopo allo scontro finale in pieno deserto, inoltre avrei fatto apparire un vero bighorn sulla scena del duello a destabilizzare le linee e le traiettorie degli sguardi dei duellanti, causando così la morte di Madec: una specie di nemesi pagana.  Nonostante questi difetti il risultato finale è comunque molto buono: è la narrazione moderna di un archetipo intrigante, ancora paradigma di una società in crisi.

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