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Lo sciacallo

Regia di Dan Gilroy vedi scheda film

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La recensione su Lo sciacallo

di scapigliato
9 stelle

Louis Bloom, “colui che striscia nella notte” è già un personaggio di culto come il Trevis Bickle di Taxi Driver (1976) o il Callahan di Dirty Harry (1972), il Gordon Gekko di Wall Street (1987) o il Tony Montana di Scarface (1983). Tutti figli di una Metropoli assente, caotica, lisergica, straniante e spersonalizzante. L’uomo metropolitano interpretato con grande mestiere da Jake Gyllenhaal non è un antieroe come tanti suo fratelli, ma un vero villain della metropoli. Un Batman al contrario, un cavaliere oscuro come prima pelle. In lui psicopatologia e sociopatia si manifestano come processi di dissociamento borderline tali per cui la realtà perde di significato e subentra l’ego smodato, il megas di un uomo solo e marginalizzato dallo stesso sistema in cui cerca di rientrare in veste di nobile appartenente.

L’americano medio-basso a cui dà volto Jake Gyllenhaal è un cittadino marginale, appartato, non considerato dal circuito che conta, un po’ come il D-Fens di Michael Douglas in Falling Down (1993). Parla come un libro stampato, si atteggia e motteggia come uno stereotipo di successo, ride e scherza con la televisione in un rapporto di inquietante empatia; affabulatore e imbonitore è l’americano marginalizzato che vuole diventare l’americano medio e inseguire il sogno di ricchezza anche lasciando dietro di sé una striscia di sangue o sconfinando  nell'illegalità. Louis Bloom, che non a caso assona con “blood”, è vampiro moderno, terribilmente reale e concreto: lo psycho della porta accanto.

Ma Nightcrawler, che poggia metà del suo successo sulla gigantesca performance del fu Donnie Darko – altro personaggio culto del terzo millennio il cui film all’epoca salutai come “la rabbia giovane della nostra generazione” – è anche molto altro. L’impietosa riflessione civile e non moralistica con cui indaga le trame più oscure delle morbosità metropolitane, radicate nel mito della violenza e della morte altrui come esorcismi per la propria piccola frustrazione borghese, fa il paio con la cronemberghiana intuizione del video e dell’immagine riprodotta come “nuova carne”, nuovo feticcio, nuovo erotismo. Inoltre, dal Quarto potere di Orson Wells del 1941, la stampa, e dal Quinto potere di Sydney Lumet del 1976, la televisione – che negli originali perdono questo interessante gioco di parole e contenuti: Citizen Kane e Network – si arriva al “sesto potere” di Nightcrawler che non è solo quello della rete pseudo-democratica di internet, ma tutto l’universo relativo all’immagine immediata, condivisa, travisata, avatar posticcio di noi stessi e delle nostre vite. Un potere immenso e già fuori controllo che ha prodotto i suoi mostri in già poco meno di vent’anni. Film come Disconnect (2012) e Spring Breakers (2013) ne sono alcuni esempi recenti.

Bisogna prestare attenzione a ogni frase di Louis Bloom, a ogni suo sguardo, a ogni suo scarto recitativo, per comprendere la grandezza del personaggio e dell’attore – uno dei momenti clou del film è il monologo di Gyllenhaal quando detta a Rene Russo il nuovo ordine delle cose, esemplificazione del disturbo narcisistico e megalomane del personaggio.

Una splendida interpretazione in un film a un passo dal capolavoro e che va a inserirsi in quel ristretto gruppo di titoli dei primi anni del terzo millennio in cui il taglio autoriale, il genere, il linguaggio cinematografico asciutto, l’estetica archetipale e il gusto iconografico per le periferie, i grandi spazi, i non-luoghi topici del nostro immaginario, sono i caratteri di un cinema che sa parlare alla contemporaneità senza derive pop, postmoderne o videoludiche. Titoli come Prisoners (2013), Cogan – Killing Them Soflty (2012), Drive (2011) e ora anche Nightcrawler, sono film che mettono in scena con una certa dominante di realismo la contemporaneità attraverso il gioco mitico degli archetipi, degli stereotipi e delle tipizzazioni più riconoscibili. Ad uso, consumo e beneficio del ricettore e della settima arte.

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